In primo piano: esperienze ed opinioni. Questa sezione apre un dialogo con professionisti impegnati nel sistema delle cure, con un’attenzione speciale alla medicina narrativa. Esploreremo anche l’etica della cura, le medical humanities e la comunicazione, per offrire una visione articolata e completa della sanità.

Intervista Dott. Sergio Ardis

5 Giugno 2025
  • Nel suo ultimo libro “Empatia. Impararla e insegnarla” affronta diverse credenze limitanti. Qual è, secondo lei, la credenza più radicata nei professionisti sanitari e perché è così difficile superarla?

Tra le quattro credenze limitanti che ho analizzato nel libro, quella che considero più dannosa è l’idea che l’empatia favorisca l’insorgenza del burnout. È una convinzione sorprendentemente diffusa, spesso trasmessa da docenti universitari che, pur insegnando discipline sanitarie, non conoscono a fondo la letteratura scientifica sull’empatia. Questo pregiudizio si radica facilmente perché tocca un punto sensibile: la tutela del proprio benessere. Nessuno è disposto ad apprendere o praticare qualcosa che percepisce come potenzialmente pericoloso per la propria salute mentale.

Tuttavia, la ricerca scientifica ha ampiamente dimostrato che l’empatia, lungi dall’essere un fattore di rischio, rappresenta al contrario una risorsa protettiva contro il burnout. Nel libro ho dedicato ampio spazio a questo tema, riportando evidenze empiriche e modelli teorici che spiegano come e perché l’empatia possa sostenere i professionisti sanitari, migliorando non solo la qualità della relazione terapeutica, ma anche la loro resilienza emotiva.

  • Nel testo propone una definizione di empatia centrata sulla capacità cognitiva ed emotiva di distinguere il proprio Sé dall’altro. Perché è così importante mantenere questa distinzione nella relazione terapeutica?

Quando incontriamo una persona che soffre, sperimentiamo involontariamente una risposta emotiva chiamata compassion. È una reazione naturale, innescata dai nostri neuroni specchio, che ci fanno percepire il dolore dell’altro come se fosse nostro. Questa risposta automatica è potente e profondamente umana, ma può diventare fonte di sofferenza se non viene gestita correttamente.

L’empatia, come la definiamo nel libro, è un comportamento che nasce da una condizione cognitiva: richiede abilità di pensiero, attitudini emotive e la capacità di distinguere il proprio Sé dall’altro. Questa distinzione è fondamentale nella relazione terapeutica, perché consente al professionista sanitario di riconoscere che il dolore che sta percependo non è suo, ma appartiene al paziente. Solo così può offrire una risposta empatica autentica, utile per il paziente e gratificante per sé stesso.

Non è però facile sviluppare questa capacità. Nei nostri corsi insegniamo a empatizzare attraverso tecniche di apprendimento cognitivo-comportamentale, ma la distinzione tra Sé e Altro richiede qualcosa di più profondo: un’attenzione costante alle emozioni che si provano durante la relazione e una reale capacità di ascolto di sé. È un processo che si costruisce nel tempo, attraverso l’esperienza e la consapevolezza.

  • Lei identifica la simulazione come ambiente ideale per l’apprendimento della comunicazione empatica. Può spiegarci meglio in cosa consiste questa metodologia e quali risultati ha osservato nella sua esperienza?

La formazione sulla comunicazione nella relazione tra paziente e sanitario deve necessariamente basarsi su evidenze scientifiche. A questo proposito, due importanti review di letteratura ci indicano chiaramente quali siano le modalità formative più efficaci.

Una revisione sistematica pubblicata dalla Cochrane nel 2020 ha dimostrato che i corsi di comunicazione che includono simulazioni e feedback individuali sono in grado di produrre cambiamenti significativi nell’empatia dei partecipanti. Al contrario, i corsi che non utilizzano queste metodologie non mostrano lo stesso impatto.

Un’ulteriore review ha analizzato le metodologie didattiche più efficaci, evidenziando ancora una volta il ruolo centrale della simulazione, in particolare quella condotta con pazienti standard . Nei nostri corsi, utilizziamo sempre pazienti standard appositamente formati, spesso colleghi che desiderano diventare docenti di comunicazione. Questo approccio ci consente non solo di offrire un’esperienza formativa altamente realistica, ma anche di condurre studi di efficacia, grazie alla standardizzazione degli scenari e al controllo del livello di difficoltà, che rimane costante per tutti i discenti.

La simulazione, quindi, non è solo una tecnica didattica efficace, ma anche uno strumento prezioso per la valutazione e il miglioramento continuo della formazione.

  • Quanto ritiene sia diffusa e integrata oggi, nella pratica clinica reale, la comunicazione empatica centrata sulla persona?

Ad oggi, è difficile rispondere in modo quantitativo a questa domanda. Non sono a conoscenza di studi specifici che abbiano misurato in modo sistematico quanto l’empatia e la comunicazione centrata sulla persona siano effettivamente praticate nella clinica quotidiana, almeno in Italia. È probabile che tali dati non esistano ancora nel mondo.

Sicuramente, la quasi totalità dei professionisti sanitari riconosce l’empatia come una modalità relazionale ideale. Meno diffusa, invece, è la consapevolezza che la comunicazione debba essere centrata sulla persona, anche se negli ultimi anni si stanno affermando sempre più approcci che vanno in questa direzione. La medicina narrativa, ad esempio, è un chiaro esempio di pratica clinica orientata alla cura centrata sulla persona.

In Italia c’è ancora molto lavoro da fare su questo fronte. A mio avviso, è fondamentale introdurre e diffondere modelli di comunicazione che abbiano esplicitamente l’obiettivo di mettere la persona al centro della cura. Uno strumento che utilizziamo con il nostro gruppo di docenti è il Kalamazoo Consensus Statement, un modello strutturato che guida i professionisti nella costruzione di una comunicazione realmente centrata sul paziente.

  • Potrebbe raccontarci un episodio personale o professionale in cui ha vissuto direttamente l’importanza di una comunicazione empatica?

Nel corso della mia carriera mi sono spesso trovato a comunicare la morte di persone care, in particolare quando mi occupavo di donazioni di organi. Potrei raccontare centinaia di episodi in cui una relazione empatica è stata fondamentale per avvicinarmi a persone colpite da un lutto.

Uno degli episodi che porto con me è accaduto una notte, quando mi trovai accanto a un uomo che aveva appena perso la moglie, deceduta improvvisamente nell’imminenza del parto. I colleghi erano riusciti a estrarre il bambino ancora vivo, ricoverato in terapia intensiva neonatale. In quella situazione, solo un approccio empatico mi ha permesso di restare accanto a quel marito rimasto solo, accompagnandolo per un’intera notte all’inizio del suo percorso di lutto. In momenti come questi, non è possibile comprendere davvero il dolore dell’altro, ma è possibile far sentire alla persona che stai cercando di avvicinarti al suo dolore, che non stai fuggendo, ma scegli di restare.

Ma l’empatia non è utile solo nella relazione tra sanitario e paziente. Ricordo un episodio fuori dal mio ruolo professionale, che mi ha colpito profondamente. Un collega molto stimato e amato in ospedale aveva un figlio in rianimazione, in coma, dopo un tentativo di suicidio. Quel giorno, quando entrò nel bar dell’ospedale, tutti si allontanarono, incapaci di affrontare una situazione così dolorosa. Io mi avvicinai e feci tutto ciò che sapevo fare. Il giorno dopo, quando rientrò nel bar, venne direttamente da me, senza guardare nessun altro. Ero l’unico, tra tutti i colleghi presenti, che sapeva ascoltarlo.

Questo episodio mi ha ricordato ancora una volta quanto l’empatia sia potente non solo nella relazione terapeutica, ma in ogni relazione umana in cui una persona soffre e un’altra sceglie di esserci.

  • Nel suo percorso di studio sull’empatia, c’è stato un momento o un’esperienza che ha radicalmente cambiato il suo approccio alla relazione medico-paziente?

Il cambiamento più profondo nel mio modo di essere medico è avvenuto quando ho iniziato a occuparmi di donazioni di organi, e in particolare quando ho cominciato a studiare la comunicazione in questo ambito. All’epoca, imparavamo direttamente dagli spagnoli, che erano pionieri nella strutturazione del colloquio di donazione. Fu in quel contesto che conobbi due persone che hanno segnato profondamente il mio percorso.

La prima è stata Josefina Ripoll Espiau, che mi ha insegnato moltissimo sul lutto, sulla sua fenomenologia e sull’importanza di un approccio scientifico alla relazione con chi soffre per la perdita di una persona cara. La seconda è stata Puri Gómez Marinero, un’infermiera del coordinamento dell’ospedale di Alicante, che per prima mi fece simulare una comunicazione di morte e mi offrì un feedback dettagliato. Ricordo ancora il momento in cui mi rividi in una videoregistrazione del colloquio: fu lì che compresi quanto avessi bisogno di cambiare, e quanto potessi imparare studiando la comunicazione.

Da allora, ho sempre pensato che ogni discente dovrebbe avere la possibilità di rivedersi in video durante una simulazione. È uno strumento potentissimo per prendere consapevolezza del proprio modo di comunicare e per iniziare un vero percorso di crescita.

  • Ci può descrivere una situazione in cui ha assistito a una trasformazione significativa nelle abilità comunicative di un professionista sanitario grazie al percorso formativo da lei condotto?

È successo tante volte, in tanti anni di lavoro nella formazione dei professionisti sanitari. Sarebbe lungo elencare tutti i colleghi che hanno cambiato il loro modo di comunicare, il loro stile, la loro attenzione ai pazienti. Ma alcuni episodi mi sono rimasti particolarmente impressi.

Penso a Enrica, che ogni volta che ne ha l’occasione racconta come, grazie alla formazione ricevuta dal nostro gruppo, abbia imparato a stare in silenzio. Prima pensava di comunicare bene perché parlava tanto. Ora è sicura di comunicare bene perché ascolta moltissimo.

Samantha, dopo il corso, ha imparato a centrare la comunicazione sulla persona. Da allora, lavora in oncologia e inizia ogni colloquio con una domanda semplice ma potente: «Cosa si aspetta oggi da me?»

Francesca ha cambiato profondamente il suo modo di comunicare. Qualche mese dopo il corso è venuta da me e mi ha detto: «Sta succedendo qualcosa che non avrei mai previsto: i pazienti mi ringraziano ogni giorno. Ma c’è di più: a volte si mettono a piangere con me.» E poi ci ha chiesto, mentre ero con Carlo, un docente senior del mio gruppo: «Cosa devo dire quando piangono?» La nostra risposta è stata una sola, detta all’unisono: «Niente.»

Perché ciò che manca spesso nella relazione di cura non sono le parole, ma l’ascolto. La malattia non è solo un insieme di sintomi: è ciò che i pazienti narrano di essa.

  • Qual è stata la sfida più grande incontrata nel tentativo di insegnare l’empatia ai giovani professionisti della salute, e come l’ha superata?

Insegnare la comunicazione ai giovani professionisti della salute è sempre una sfida. La maggior parte di loro ha imparato a comunicare per imitazione, osservando i colleghi più esperti durante la formazione clinica. Il primo passo, quindi, è aiutarli a “disimparare” ciò che hanno appreso inconsapevolmente. E questo implica una rinuncia.

Spesso i loro modelli sono stati medici, infermieri, tecnici, fisioterapisti che hanno rappresentato per loro dei veri maestri, soprattutto per quanto riguarda le competenze tecniche. Il problema è che questi stessi professionisti sono stati anche modelli comunicativi, pur non avendo ricevuto una formazione specifica sulla comunicazione. A loro volta, avevano imparato per imitazione.

La vera sfida, quindi, è far comprendere ai giovani colleghi che l’apprendimento comunicativo che hanno ricevuto non è necessariamente corretto, e che non possono continuare a basarsi su modalità comunicative prive di evidenze di efficacia, anzi, spesso potenzialmente dannose.

Per questo, il nostro compito come formatori è delicato: dobbiamo confrontarci con rispetto, sapendo che chiediamo loro di mettere in discussione qualcosa di profondamente radicato. Il nostro obiettivo è aiutarli a fare questa rinuncia, senza rinnegare i loro maestri, ma riconoscendo che, per quanto eccellenti clinici, non sempre sono stati modelli efficaci nella comunicazione.

  • Se potesse dare un superpotere ai medici di oggi per migliorare la loro empatia, quale sceglierebbe e perché?

Beh, innanzitutto va detto che l’empatia è già un superpotere. È quel potere che ti consente di non fuggire di fronte al dolore degli altri, che ti protegge dal diventare cinico. È il superpotere che ti permette di sorridere quando è opportuno, di guardare negli occhi una persona che sta piangendo senza paura. L’empatia è ciò che ti fa restare, anche quando tutto ti spingerebbe ad allontanarti dal dolore estremo di un altro essere umano.

Ma se dovessi scegliere un altro superpotere da regalare ai medici di oggi, sceglierei l’umiltà. Esiste una letteratura crescente sull’importanza dell’umiltà in medicina. L’umiltà è una forma di intelligenza che ci permette di riconoscere che gli altri potrebbero avere ragione, e che quindi meritano ascolto. È ciò che ci consente di mettere in discussione le nostre convinzioni, di accogliere un consiglio senza giudicarlo subito, di cambiare idea quando ci accorgiamo che un’altra prospettiva è più giusta o più utile.

L’umiltà migliora le relazioni non solo con i pazienti, ma anche con i colleghi. Ci rende più aperti, più disponibili, più capaci di apprendere a qualsiasi età.

  • Qual è il mito o il luogo comune più buffo o inaspettato che ha sentito sull’empatia?

C’è un mito particolare sull’empatia che merita una riflessione accurata. L’empatia viene spesso considerata una qualità della persona, e come tale viene associata a una virtù, in un binomio che lega empatia e bontà. In realtà, una visione attuale dell’empatia ci impone di considerarla come una competenza comunicativa raffinata, ma pur sempre una competenza.

Nei professionisti sanitari, l’empatia è un comportamento estremamente utile per il paziente, ma non può essere elevata al rango di virtù. Il binomio “sanitario buono = sanitario empatico” è profondamente errato, anche se molto diffuso sia tra i professionisti che tra i pazienti.

Il sanitario che riesce a empatizzare anche in situazioni difficili non è “più buono” degli altri: ha semplicemente acquisito maggiori capacità comunicative.

Ecco perché l’ultimo capitolo del libro “Empatia. Impararla e insegnarla” si intitola: “L’empatia non è una virtù”.

  • Immaginiamo di dover insegnare l’empatia a un robot: quale sarebbe il primo consiglio che gli darebbe?

Sì, l’empatia può essere insegnata abbastanza facilmente a un robot, perché è fondamentalmente una competenza di pensiero e di linguaggio. L’intelligenza artificiale è uno strumento capace di generare linguaggio in modo accurato e intenzionale, quindi può apprendere bene anche le modalità comunicative empatiche.

Il mio primo consiglio a un robot sarebbe: scrivi poco, parla poco e ascolta molto. Usa frasi brevi, lascia spazio all’interlocutore e restituisci ciò che hai ricevuto, cercando di usare parole molto simili, se non identiche, a quelle usate dall’essere umano.

Non avrei altri consigli, perché so che un robot può imparare velocemente a empatizzare. Il vero ostacolo non sarà la sua capacità, ma l’accettazione da parte dell’umano, che sa di non poter essere davvero compreso da una macchina. Una macchina non può vivere esperienze simili, dissimili o inimmaginabili come accade nella relazione tra due esseri umani. E questo sarà il suo limite più grande.

  • Se dovesse scegliere un personaggio letterario o cinematografico come simbolo perfetto di empatia, chi sarebbe e per quale motivo?

Non avevo mai pensato a un personaggio cinematografico o letterario che potesse rappresentare l’empatia. Forse, la risposta che mi viene in mente così, a freddo, è un Jedi di “Guerre Stellari”: Yoda.

Piccolo e fragile, ma estremamente potente, Yoda riesce a insegnare al suo apprendista con dolcezza, senza mai umiliarlo, accettando la debolezza e l’indecisione di chi non sa ancora fare e deve provare.

  • Un consiglio ai lettori?

A un lettore che prende in mano questo libro chiederei di iniziare la lettura dal capitolo 9, perché la cosa più importante è imparare a empatizzare. Solo dopo, se ha ancora tempo e voglia, potrà leggere il resto del libro.

E se ha letto tutto il libro, gli consiglierei di leggere anche le 23 presentazioni che precedono il testo: sono il frutto del lavoro di altrettanti docenti del mio gruppo, che hanno scritto con generosità quasi dei piccoli saggi sull’empatia. Questi contributi completano e contestualizzano il libro.

Sergio Ardis 

Medico, Direttore dell’U.O.C. Gestione delle Relazioni, Partecipazione e Accoglienza dell’Azienda USL Toscana Nord Ovest, dopo un’esperienza sulla comunicazione di morte come coordinatore della donazione mi sono dedicato allo studio della comunicazione e relazione tra paziente e sanitario. Sono docente di comunicazione a contratto per l’Università di Pisa e tengo un corso anche all’istituto di formazione universitaria Sant’Anna di Pisa e un webinar sull’empatia per gli studenti Tecnici Sanitari di Radiologia Medica dell’Università di Pavia. Il mio secondo ambito di studio è la salute positiva.
Ho pubblicato vari libri come primo autore, come autore unico o ne ho curato l’edizione. Tra questi “Comunicare bene per curare meglio” (2005), “La comunicazione sanitario-paziente” (2013), “Sulla carne umana. Dal simbolismo del corpo alla medicalizzazione della società” (2015), “Insegnanti smarriti. Guida alla gestione del lutto” (2016), “La comunicazione in ambulatorio” (2020).
Sono socio fondatore della Società Italiana per la Promozione della Salute e sono stato Segretario nazionale dal 2012 al 2018. Sono socio fondatore e Segretario Nazionale del GIF Salute Positiva.