In primo piano: esperienze ed opinioni. Questa sezione apre un dialogo con professionisti impegnati nel sistema delle cure, con un’attenzione speciale alla medicina narrativa. Esploreremo anche l’etica della cura, le medical humanities e la comunicazione, per offrire una visione articolata e completa della sanità.

Tania Milletti è medico e psicoterapeuta. Ha maturato esperienza nella medicina del territorio e conseguito una formazione psicoanalitica esperienziale che si è coniugata con l’interesse verso la Medicina Narrativa. Attualmente fa parte del CD della Società Italiana di Medicina Narrativa, coltivando il suo interesse per la scrittura e la riflessione al servizio della cura.
Intervista a Maria Giulia Marini
Nelle righe seguenti potrete apprezzare l’intervista a Maria Giulia Marini, epidemiologa e counselor, pioniera riconosciuta a livello internazionale nella Medicina Narrativa. Nel suo libro “Non violent communication and Narrative Medicine for Promoting Sustainable Health” (pubblicato in inglese nel 2024) , essa porta all’attenzione le potenzialità della Medicina Narrativa nel promuovere una comunicazione non violenta e il suo ruolo nell’integrare approcci scientifici e umanistici nell’assistenza sanitaria.
- Una comunicazione chiara è difficile in vari ambiti, specialmente in quello della cura. Nel contesto sanitario le conseguenze di un colloquio mal condotto possono essere davvero devastanti, per i pazienti e i curanti. La Medicina Narrativa, coniugando conoscenze a più livelli e attitudini di cura complesse e riproducibili, può davvero trasmettere le informazioni che transitano in ambulatorio in maniera adeguata ed efficace. A tuo parere, c’è spazio e volontà nei curanti per apprendere le abilità comunicative abdicando al presunto strapotere della scienza (nella sua accezione monolitica)?
La scienza spesso è diventata scientismo riduzionista: ci si concentra su un gene dell’organo ammalato. Questo è molto importante, poichè si perde di vista la persona intera. Il nostro corpo è stato frammentato in ultraspecializzazioni, sempre più dettagliate, focalizzate. Ho usato il termine scientismo perchè si è anche perso di vista il metodo scientifico che ragiona per probabilità, semina dubbi e incertezze… basta leggere titoli dei giornali, dei post ed ascoltare le presunte certezze, magari raccolte in studi clinici che avevano una popolazione non rappresentativa della realtà che frequenta con le sue tante malattie complesse i luoghi di cura, per capire la piega determinista e negazionista della complessità che ha preso oggi buona parte l’insieme dei protocolli di cura.
La scienza è fondamentale ma in primis sappiamo che spinge molto su farmaci e dispositivi medici perchè è da lì che arrivano la maggior parte dei finanziamenti, e quindi ad esempio l’effetto neuroscientifico delle “parole” sul cervello deve essere studiato attraverso studi indipendenti, in quanto non arrivano abbastanza fondi. E come in un circolo vizioso, gli studenti in medicina sentono parlare dal primo anno di Evidence Based Medicine, fatto appunto di pubblicazioni scientifiche, protocolli e poco, troppo poco di comunicazione e narrazione.
E’ importante tenere uno sguardo ampio e inclusivo che abbracci sia la Evidence Based Medicine sia la narrative based care, la cura basata sulla narrazione, di cui esistono già le prime evidenze (prove) del suo funzinamento a beneficio della fisiologia dell’essere umano e dei curanti. Vi sono prime università in Italia, in Europa e negli Stati Uniti che insegnano “comunicazione e narrazione ai futuri medici”, dal secondo e terzo anno del percorso universitario. Milano, Roma, Barcellona e Porto accolgono questo approccio che amplia la competenza e integra le discipline scientifiche STEM con quelle umanistiche SHAPE. La logica del questo o quello, quella divisiva, non funziona. E sappiamo che i curanti migliori sono quelli dotati di competenze narrative: pubblicazioni su JAMA e il New England ce lo affermano con dati molto robusti alla mano: minore mortalità dei pazienti con medici più empatici. E quindi questa divisione deve cessare perchè fa danno alla sanità e alla salute.
I curanti vogliono occuparsi di Medicina Narrativa, a volte però lo sentono come un tempo rubato a “qualcosa” di più scientifico. Quest’ultima è un ‘opinione che ha delle distorsioni cognitive : si cura meglio se si ascolta meglio (e si può imparare anche a farlo in tempi brevi senza interrompere o influenzare- sono forme di slow violence), si accoglie la biografia del paziente e si co- costruisce assieme un percorso di cura. Ho conosciuto anche direzioni generali e sanitarie illuminate, che hanno capito il fenomeno e desiderano cambiare il paradigma divisivo per unire le parti. Sono fiduciosa su questo aspetto.
- Sono stata colpita, nel capitolo 5, dall’attenzione riservata al mondo dei giovani “ribelli” e dalle righe in cui manifesti la tua gratitudine per il loro comportamento ai tempi del Covid. Si sono chiusi in casa altruisticamente per favorire e far vivere gli anziani fragili. Il loro disagio, d’altra parte, non è stato pienamente considerato e compreso, sfociando in un drammatico aumento del ritiro sociale. Gli adulti sono formalmente meno vecchi ma sempre più distanti dall’universo giovanile in evoluzione rapida. Nel testo suggerisci dunque la ricerca di uno stile comunicativo che possa far davvero breccia nell’adolescente. Come la Medicina Narrativa può a tuo parere riuscire in questo ambizioso e prioritario obiettivo?
Prima delle parole, la stima vera ed il rispetto per le giovani generazioni. Sono il nostro futuro, quindi è inutile apparire gentili o in ascolto se siamo in chiusura, o con la mentalità di alcuni intellettuali che chiamano i giovani sdraiati, viziati, pigri: non lo sono e stanno vivendo un momento contemporaneo dove l’unico sprone che sento di dare loro è di riprendersi la VOCE, la narrazione: la loro voce, in un mondo del lavoro che fa contratti a progetto a 3 mesi, 6 mesi, in una università che ha a volte degli stili troppo arcaici e gerarchici, o a dei genitori- che al confronto di quanto si scrive- sono pieni di pretese nei loro confronti: laurea a pieni voti e posto fisso, così da non avere più pensieri. Sarò sempre grata ai giovani, per come si sono comportati durante il covid, e sono purtroppo stati oggetto di violenze mediatiche e di discriminazione in favore delle classi di età di persone che “in parte” avevano già vissuto. Ora raccogliamo, con l’aumento dei disturbi alimentari e purtroppo degli attacchi di panico fino al suicidio, le conseguenze di due anni di didattica a distanza in giovani che ancora dovevano terminare di sviluppare il loro cervello (si sa che fino a 25 anni il cervello è ancora in sviluppo). Aumentano i casi di hikikomori, chiediamoci il perchè. Ascoltiamo le loro narrazioni, attraverso una lente che non li giudichi e non abbia pretese da loro. Come mettersi in contatto con loro? Con parole semplici e autentiche: “Come stai?”. Se la risposta è “bene”, o “normale”, vuol dire che siamo ancora alla superficie, che possiamo andare oltre, fare sentire che possono parlare e che possono confidarsi. E’ inutile fingere di essere giovani come loro per agganciarli. Dura poco. Nel libro ci sono le parole universali, quelle semplici, che ci hanno accompagnato nella nostra evoluzione… Bisogna partire da domande semplici, ma ricordiamoci che in primo luogo viene il silenzio di rispetto, di accoglienza, il non verbale… Cosa ti piace… Cosa ti piacerebbe… cosa vuoi… Ecco, queste possono essere delle micro strade da percorrere… con calma e con pazienza. Noi siamo i senior e allora usiamo le potenzialità di questa parola: l’esperienza della pazienza. E usiamo i loro canali di espressività: fotografie, video e scrittura digitale perchè è inutile chiedere di tenere un diario scritto a penna a chi usa un altro linguaggio.
- Altro tema cruciale che emerge nel capitolo 8 è quello del potere nelle Istituzioni sanitarie e nei curanti stessi. Come sottolinei, la ricerca finanziata non ha interesse nello studio della personalità dei medici, nonostante il rischio concreto che questa influisca nella relazione, nella cura e quindi nella salute pubblica. I contenziosi in tale ambito si nutrono di tali contraddizioni e misunderstanding. Come poter portare argomenti sempre più convincenti nell’ambito della ricerca sul fatto che la Medicina Narrativa possa agire riducendo i rischi di comportamenti medici dannosi?
Vi sono degli studi che dimostrano che migliorando la comunicazione tra operatori e pazienti si hanno meno errori in sanità e altri che dimostrano che quando si dedica un tempo giusto alla comunicazione- dai 20 ai 30 minuti- i tempi di cura sono più veloci, c’è meno consumo di prescrizioni. Sappiamo che i contenziosi nascono per problemi di comunicazione, e questo è un dato pubblicato. Però vi sono due livelli di comunicazione: il primo consiste nelle “buone maniere”, accogliere, salutare, presentarsi, ascoltare brevemente la malattia, spiegare la malattia, prescrivere e salutare. Il secondo è quello narrativo non violento: accogliere con ascolto attivo e osservazione senza interruzione, comprendere oltre alla malattia anche “frammenti di biografia della persona” per capire quanto questa malattia incida sulla vita della persona e del suo cosmo. Spiegare le possibili strade da percorrere ascoltando i desideri dell’altro, decidere assieme un percorso e portarlo avanti, per trasformare la narrazione da peso totale della malattia a viaggio assieme dove la persona malata non è più sola ma accompagnata, tenuta. Dubito molto che scegliendo la seconda strada arrivino le denunce. E quindi sì la medicina narrativa può aiutare a contenere fenomeni di medicina difensiva, come iperprescrizioni di esami o di interventi e procedure.
- Nel cap 10 è presentata una interessante disamina delle diverse intelligenze possibili e della loro applicabilità nei contesti di contatto con l’Altro. In particolare fai riferimento ad un concetto fondante del contatto, ovvero il riconoscimento. Senza di esso i più grandi geni della storia non sarebbero divenuti tali. Il medico virtuoso e che utilizza un paradigma di medicina narrativa non può prescindere dal riconoscimento del paziente, della sua persona particolare nel suo contesto di vita e valoriale. Nell’ottica di un “Paese delle meraviglie sanitario” inoltre, dimostri come l’uso dei vari tipi di intelligenza possa essere inserito nel bagaglio del medico posto di fronte al malato. Le cosiddette intelligenze multiple. Realizzare una integrazione di tali capacità nel tempo medio di una visita, ovvero 10 min, è una operazione a dir poco ambiziosa. Come pensi di convincere il giovane medico di oggi ad abbracciare tale occasione?
La scoperta delle intelligenze multiple come applicazione nella medicina narrativa è stata una idea che abbiamo avuto quando abbiamo effettuato un lavoro di ricerca su una malattia rara. la sindrome di Prader Willi (PW), coinvolgendo 193 partecipanti tra ragazzi e adulti con Prader Willi e loro caregivers. Ricerca che è stata pubblicata su British Medical journal, proprio per l’uso delle intelligenze multiple: qui ci troviamo di fronte a quella che viene definita normalmente una condizione di disabilità, ma dalle narrazioni degli stessi ragazzi e adulti con PW, abbiamo visto molta intelligenza visuospaziale (sono bravissimi a creare puzzle, molto più veloci di “noi”) intrapersonale, esistenziale, naturale, musicale. Insomma abbiamo visto il limite del quoziente intellettivo per definire le disabilità. Da qui è iniziato il mio amore consapevole per le intelligenze multiple, le insegno ai professionisti sanitarie da quattro anni e ho visto che questo argomento li ha sempre interessati. E sono stati loro che mi hanno guidato a riflettere su come portarli all’interno di una visita anche di 10 minuti. Magari non le useremo tutte, solo alcune: ma almeno ci allontaneremo dal “solo” cognitivo e numerico. Perché noi siamo molto di più del cogito ergo sum, su cui si basa il quoziente intellettivo. Sappiamo che i curanti migliori sono quelli più versatili: ascoltano in modo non violento (senza interrompere i primi due minuti) le narrazioni anche brevissime e vedono la storia del corpo dei pazienti, per poter capire/intuire, quali strade prendere.
- Una provocazione. Alla fine di ogni capitolo, attraverso la parte del “practice time” fai ben vedere come attraverso semplici ma chirurgiche domande, molte realtà di patologia nascondano significati imprevedibili per chi le attraversa. Tali domande od osservazioni evocano risposte che forse si evita di conoscere per paura di affrontare lo scenario ignoto che si apre. il contatto profondo col paziente “ senza etichette” può arrivare così in profondità da far emergere la volontà del paziente di non curarsi (es.suicidio, hikikomori..) La Medicina Narrativa potrebbe aiutarci ad affrontare anche questa estrema sfida dell’essere umano?
E’ la soggettività dell’esperienza, che va oltre l'”etichetta della diagnosi”: Alzheimer, Depressione, Hikikomori, ma anche Tumore, Emicrania, Epilessia: sono codici questi nomi che ci aiutano a classificare un fenomeno ma dobbiamo sapere che ogni sostantivo di condizione è già un atto che riduce. Certo dare il nome, dal greco kaleo, è un esperienza estetica, bella, dal greco kalos, appunto bello e buono. Sappiamo cosa abbiamo: ma noi siamo molto di più della condizione che abbiamo: una persona non è epilettica, ha l’epilessia e anche tante altre risorse e questioni irrisolte: e questo cambiamento di prospettiva apre nuovo orizzonti.
Noi esistiamo durante una malattia, e vorrei che i curanti capissero che dietro un organo ammalato- che va curato e con competenza- c’è un cosmo. E perché sarebbe auspicabile lavorare così? Noi siamo ecosistemi complessi, dove non possiamo non considerare il riverbero di una parte “malata” sul resto della nostra vita. Per me la medicina narrativa prende senso quando agisce non solo sulla vita, ma sulla sua qualità, nel senso etimologico del termine. In modo sostanziale, per produrre cose e stati d’animo funzionali all’esistenza soggettiva delle persone.
Per poter agire in profondità, le competenze narrative sono fondamentali: può essere la parola, come altri linguaggi che le intelligenze multiple sanno cogliere.
Sì, è una grande sfida perché è uno studio continuo, una tensione continua di avvicinamento alla vita dell’Altro: e in questa società del “tutto e subito”, in inglese del “quick and fix”, questo richiede tempi spazi mentali più vasti. Ma la posta in gioco è meravigliosa e possiamo farcela, i movimenti di medicina narrativa ci sono in Italia, in Europa, in Canada Stati Uniti, Messico, Cile, Brasile, Australia, Cina, Russa, Corea del sud India… insomma è un bisogno planetario.
In conclusione, le intuizioni di Maria Giulia Marini evidenziano il potenziale trasformativo della Medicina Narrativa nel promuovere relazioni sanitarie empatiche ed efficaci, apportando un contributo essenziale al benessere collettivo attraverso una cura della persona personalizzata ed integrata.

Maria Giulia Marini
è epidemiologa e counselor. Con esperienza pluriennale nel settore sanitario, è una pioniera riconosciuta a livello internazionale della Medicina Narrativa, disciplina che insegna in diverse università italiane e straniere. Con ISTUD ha sviluppato metodologie scientifiche innovative che integrano scienza e umanesimo per promuovere una cura di significato per la vita della persona. Convinta del potere trasformativo della parola, ha intrecciato la Medicina Narrativa con la Comunicazione Non Violenta per favorire relazioni di cura autentiche e rispettose. È presidente fondatrice di EUNAMES dal 2020 (European Narrative Medicine Society) e curatrice della collana New Paradigms in Healthcare. Autrice di saggi tradotti anche in cinese, ha collaborato con l’OMS e con la Treccani.
Motto: Gentilezza e attivismo: due forme del coraggio per cambiare la cura

