ARTICOLI In questa sezione, gli articoli si concentreranno su medicina narrativa, medical humanities ed etica della cura. Analizzando studi pubblicati su riviste scientifiche autorevoli, si tenterà di offrire un punto di partenza per un dialogo interdisciplinare che coinvolga tutti i professionisti della salute. L’obiettivo è contribuire alla costruzione di una pratica clinica più completa e personalizzata, che valorizzi sia l’efficacia degli interventi che la dimensione umana dell’esperienza di malattia
Donatella Pagliacci Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Le pratiche di cura. Tra prossimità e distanza

«La salute del corpo è temporanea: il medico, anche se te la restituisce non può garantirla spesso è invitato a tornare dalla persona che già lo aveva convocato: lo spirito, invece, è curato tutto una volta per sempre. Ti insegnerò a riconoscere uno in salute: se basta a se stesso, se confida in se stesso, se sa che tutti i desideri dei mortali, tutti i vantaggi concessi e richiesti, non hanno importanza in una vita felice»1.
Hans -Georg Gadamer nel suo Dove si nasconde la salute sottolinea come «in tutti i settori in cui si applicano nella pratica delle regole si riscontrerà un fatto tipico di ogni prassi: quanto più un individuo “domina” la sua abilità, tanto maggiore è la libertà che egli possiede nei confronti di questa capacità. (…). In rapporto all’arte medica, però si parla di “dominare” anche in un modo ancora diverso. Il medico non esercita solamente un dominio sulla sua arte (come ogni esperto). Della scienza medica si dice anche che “domini” certe malattie o impari a dominarle. Qui si manifesta il carattere particolare dell’abilità medica: essa non “fabbrica” o “produce”, ma contribuisce a ristabilire la salute del malato»2.
Si individuano, tra gli altri, due gesti particolarmente rilevanti espressi dai verbi riparare, utilizzato nel senso di una rilettura della malattia e ripartire, inteso come un affidarsi alla relazione che cura.
Tutto ciò invita a riflettere sul modo in cui abbiamo imparato a concepire la malattia, nel senso, spiega Paul Ricoeur dell’essere il negativo di un positivo3 ovvero di «adattare un senso differenziato di rispetto a una nozione del patologico carica di valori positivi. Insisto su adattare: si tratta proprio di un rispetto mirato rivolto al patologico in quanto riconosciuto strutturalmente degno di rispetto»4.
Questa riabilitazione della malattia, che viene conseguita attraverso l’analisi di tre livelli: biologico, sociale ed esistenziale, passando per un ripensamento del significato di norma e quindi di normale, approda al superamento di una visione ordinaria e insolente della malattia e del suo conseguente deprezzamento ed una riabilitazione del fragile, il quale viene percepito nel suol valore non nonostante la malattia, ma proprio in quanto capace di inaugurare un altro modo di stare al mondo.
Per tali ragioni nel presente contributo si vorrebbero mettere a tema due brevi nuclei tematici: il primo dedicato all’insorgere della malattia con la possibile riabilitazione in ambito relazionale; il secondo dedicato al ruolo fondamentale assunto dalla narrazione come elemento indispensabile nella pratica di cura.
Una storia spezzata
L’esperienza comune insegna che è possibile riconoscere nella malattia un effetto distruttivo, reso strutturalmente possibile dal fatto che questa produce nei malati una frattura esistenziale da cui deriverebbe anche un procedimento di auto-esclusione. Ammalarsi vuol dire sentirsi assaliti da un male che, in qualche modo, fa irruzione, inaspettatamente, nella nostra vita, interrompendo il normale corso di un’esistenza che si strutturava su ritmi più o meno consolidati.
In questa condizione patica, la persona malata si sente inadeguata e quasi non più all’altezza degli standard o delle aspettative che riusciva, senza difficoltà, a soddisfare in precedenza e, per questo, rischia di perdere uno sguardo positivo su se stessa, finendo, in alcuni casi, per non sentirsi più meritevole della stima dovuta alla persona “sana”.
Ci si rende inoltre conto che la malattia non è solo una questione privata e che non lo sia lo conferma l’impatto che la società possiede sulla condizione di malattia. Infatti, Tutti coloro che sono stati, seppure in modo temporaneo, colpiti da una grave malattia riferiscono di aver sperimentato un senso di decadimento e di conseguente deprezzamento del proprio valore, a seguito dell’insorgere del dolore e della relativa sofferenza. Questo ci fa rendere ancora di più conto di come «l’immagine del valore dell’uomo veicolato da una società influisce di fatto sull’immagine che ognuno ha di sé»5. Ciascuno si legge con la lente dell’accettabilità sociale e il non sentirsi più all’altezza di certe attese a aspettative sociali può influire negativamente anche nel processo di guarigione.
Si profila a questo punto come essenziale il rapporto che il malato può instaurare con il proprio medico, perché fondato sulla fiducia e sulla possibilità, inscritta nella relazione, di risollevare il paziente dalla situazione di negatività che potrebbe essere insorta con la malattia.
Nel suo lavoro dedicato alla professione medica, Karl Jaspers ha puntualmente colto questo aspetto sottolineando come i rapporti tra medici e pazienti possono essere molto diversificati. In particolare, «qualche malato si consegna ciecamente al medico con fiducia illimitata; un altro si pone nei suoi confronti con la fiducia consapevole che nutre verso un amico dal quale non si attende nulla di sovrumano, ma di cui non teme neppure l’inaffidabilità. Uno ama il medico perché infinitamente prodigo di aiuto, un altro lo odia perché l’essere medico è legato all’essere malato, o perché, consapevole della propria impotenza non sa come sfuggirgli: questo tipo di malato permane nella situazione paradossale di chi cerca il medico, perché non può fare a meno di lui, e insieme lo odia, perché vorrebbe liberarsene»6.
Si tocca qui un punto di grande rilevanza per ciò che concerne il significato della relazione in generale e di quella tra medico e paziente, in particolare. Su questo punto Ricoeur parla di altro del malato, che è rappresentato appunto dal medico, che ha la possibilità, nell’entrare in relazione con il paziente, di compensare il deficit di stima di sé di chi soffre, per mezzo di una sorta di stima doppia, che Ricoeur chiama appunto «stima di sostituzione e di supplemento», tenendo presente che «supplemento di stima è basato sul riconoscimento dei valori positivi annessi alla malattia»7.
Si tratta di individuare nella professione medica qualcosa che va oltre il piano della semplice competenza tecnica e riguarda l’umanità stessa del medico per riuscire ad inserirsi efficacemente nel processo di cura del malato. Il medico, infatti, dovrebbe essere in grado di esprimere una disposizione verso i malati a cui diamo il nome di compassione.
La compassione non è il pietismo, ma rivela una capacità di saper prestare l’intervento più opportuno nel contesto di malattia del paziente, saper riconoscere ciò di cui ha più bisogno quel malato nell’ambito specifico della sua malattia e della sua vita personale. Da qui possiamo riconoscere come la compassione si iscriva nel contesto dell’individuazione di nuove risorse e di pratiche dell’aver cura, che si ritengono fondamentali per porgere un argine agli ostacoli del vivere comunitario, dall’individualismo, al tribalismo, fino alle diverse forme di conflittualità che scaturiscono per lo più dal confronto con l’altro. La compassione, come è stato sottolineato, ancor meglio dell’empatia può essere intesa come una pratica di cura, perché «contrariamente all’empatia, (…) non comporta la condivisione della sofferenza degli altri: piuttosto è caratterizzata da sentimenti di calore, premura e cura nei confronti dell’altro, come anche da una forte motivazione ad aumentare il benessere»8.
Raccontare altrimenti
Si tratta a questo punto di assegnare alla pratica della relazione narrativa un ruolo di primo piano nella pratica di cura. Un primo avvertimento in tal senso lo ricaviamo dalle parole di Gardini che riconosce come la nostra esperienza di vita è contornata, fin dall’inizio da tante parole, anche se «non tutte le parole che ci raggiungono (…), sono parole vere. Le parole vere, quelle che hanno la capacità di curarci, sono le parole che non mentono; che ci dicono qualcosa di nuovo e di bello; che ci preoccupano della nostra solitudine e la popolano divisioni e di promesse; che ci danno salute»9. Siamo dinanzi ad una verità incontrovertibile, sono tante, persino troppe le parole che contornano la nostra vita, a volte hanno la potenza di giudizi che inchiodano, altre la forza rigenerante del rispetto e del riconoscimento. Le parole possono mortificare, offendere o risollevare, curare e curarci.
In modo significativo Gardini ammette che «la parola curante può nascere solo nel momento in cui la nostra soggettività cessa di considerarsi prioritaria; quando nella nostra percezione del mondo si accresce il senso dell’alterità e l’altrui fragilità diventa per noi, grazie alla nostra risvegliata voglia di curare, possibilità di forza. Allora la nostra persona ci appare assai più ampia della nostra esistenza individuale. Allora tutto e tutti ci riguardano, e ci sentiamo responsabili per tutto e per tutti; e dire qualcosa di buono e di vero e di bello al bisognoso, il sofferente, il triste, all’ignorante non è assurdo o esagerato o impertinente, ma è una necessità»10.
Si tratta di riconoscere come e quanto la narrazione permetta alle persone di avviare un percorso di riconoscimento di sé e del proprio vissuto emotivo, soprattutto quando si tratta dell’insorgere della malattia. Come sottolinea Duccio Demetrio: «Il momento in cui sentiamo il desiderio di raccontarci è segno inequivocabile di una nuova tappa della nostra maturità» e se questa nuova tappa si situa nel percorso terapeutico «diventa particolarmente efficace per la persona che attraversa il vissuto del dolore e della sofferenza»11.
La narrazione consente alla persona di conoscere o riconoscere realmente se stessa, nella misura in cui raccontando, per dirlo con Paul Ricoeur «il soggetto raccoglie se stesso e tenta di costruire una storia di vita che sia, a un tempo, intelligibile e accettabile, intellettualmente leggibile e emotivamente sopportabile»12 .
Ecco, dunque, che il lavoro della narrazione si definisce come lo spazio e l’occasione per la ricostituzione del sé, perché narrandosi è possibile tenere insieme il ricordo del passato e l’attesa di futuro. In particolare, nell’ambito terapeutico la narrazione consente di ricordare e ricomporre ‘i pezzi’ della storia della malattia. I pazienti individuano molto bene il tempo che precede l’insorgenza della malattia, ne percepiscono nostalgicamente la ricchezza, sapendo anche definire con altrettanta lucidità le trasformazioni prodotte dall’irrompere del dolore e della relativa sofferenza. Nel raccontare, man mano che arricchiscono la loro narrazione di ulteriori particolari, sanno ricostruire le diverse fasi, dal primo sintomo alle varie e progressive manifestazioni del decorso della malattia. Spesso il lavoro narrativo, che è tanto ricco proprio perché condiviso con qualcuno, approda alla definizione di un senso che si svela nella malattia, come se questa fosse rivelativa, se permettesse cioè di ripensare alla totalità della vita.
Poter raccontare significa anche esercitare una forma di controllo sulla propria esistenza, non essere in balìa degli altri, ma riprendersi i propri spazi di autonomia. Nell’affidarsi a chi si prenderà cura di lui, il malato rivendica la propria competenza, egli sa, conosce la propria malattia, perché fa parte di lui, talvolta può persino arrivare a dargli un nome proprio. Per queste ragioni può divenire un alleato del medico, perché insieme condividono lo stesso scopo di cura. Infatti, nella pratica narrativa tra chi racconta e chi raccoglie il racconto dell’altro si crea un’alleanza, fatta di un reciproco donarsi, un’occasione talvolta unica mediante la quale è possibile fare i conti con la profondità dei vissuti dei malati, scoprendo la ricchezza di cui sono portatori. L’incontro tra il medico che accoglie la storia della malattia e il malato che gliela consegna è anzitutto un incontro di sguardi. Da un punto di vista antropologico, volgere lo sguardo sull’altro, da parte di un io, comporta un decentramento benefico, che preserva dall’egoismo solipsistico, nel quale rischia sempre di precipitare l’io quando cade vittima del proprio autocompiacimento. Ci si potrebbe domandare, con Virglio Melchiorre, «che cosa accade quando mi imbatto nello sguardo dell’altro?»13. È lo sguardo intenzionante che ci rende custodi e ci trasforma da semplici esseri-in-relazione a persone significative per qualcuno e punti di riferimento per l’esistenza nostra e altrui.
Ciò perché quando guardo qualcuno posso mostrargli il mio essere presso di lui con rispetto, un essergli presso che non vuol dire desiderio di possederlo, ma rivelargli riconoscenza per il suo esserci, senza con ciò chiedere nulla in cambio. Dalla parte di chi è guardato, anche quando non se ne avvede (come nel caso del bimbo appena nato), dobbiamo altresì riconoscere che lo sguardo è capace di donare senso e far sentire l’altro, meritevole di cura e di rispetto, solo quando è attento e capace di salvaguardare l’essere altrui.
L’essere oggetti dello sguardo dell’altro può produrre altresì delle modificazioni, dal momento che trasforma, rendendo gli altri i soggetti meritevoli di rispetto o di disprezzo, ma può anche incidere sulla percezione di noi stessi e scavare un solco nella coscienza portandoci anche ad assumere un determinato sguardo nei confronti di noi stessi. Lo sguardo altrui può mettere in valore la nostra dignità o mortificarci; possiamo anche riconoscere che «se lo sguardo dell’altro mi pietrifica e mi riduce a mero oggetto, ciò dipende solo dal fatto che l’altro non mi ha ancora scorto come sguardo, cioè come una sua possibilità, o dal fatto che mi ha scorto e mi rifiuta in quanto sguardo»14.
È stato proprio Helmuth Plessner, che dopo aver definito la vista come un senso distale, si è soffermato ad esplicitarne il significato fenomenologico. In particolare, ammette che «il vedere corrisponde al visto come tale, lo lascia così come è; il contatto con esso avviene attraverso la distanza. Tale “remota possibilità” soddisfa appieno l’ideale della conoscenza di una cosa in sé, l’ideale di un puro e immediato “afferrare” la verità [Wahr-nehmung]»15.
In definitiva, lo sguardo vive nella e della presenza e dell’altro, anche senza bisogno della reciprocità è un distendersi dell’io oltre sé, perché è in se stesso possibilità di trascendimento: situato e desituante, lo sguardo di chi accoglie il dono del racconto altri è apertura alla presenza dell’altro.
È per queste ragioni che la pratica narrativa permette di riconoscere che gli incontri, che si svolgono tra le singolarità delle persone «danno modo di fare grandi scoperte. Sono terapeutici nella misura in cui permettono a qualcuno di dire, e quindi di sapere, “ciò che conta” per l’altro in quel “preciso momento”»16.
La medicina narrativa ha compreso l’importanza del raccontare la storia della propria malattia da parte dei pazienti, perché, come sottolinea Massimiliano Marinelli, «la medicina narrativamente competente presta attenzione alle storie e ai loro significati, sia per i pazienti che per i medici. In questo contesto, la medicina che è sia tecnologicamente competente sia narrativamente competente rappresenta un nuovo paradigma di cura»17.
Questa messa in opera di un riscatto della malattia, ma soprattutto della persona malata permette anche di riconoscere che il paziente possiede delle capacità e, quindi, una sua insopprimibile dignità, che, mediante la pratica narrativa diviene riconoscimento come fonte di rispetto. Attraverso la pratica narrativa, è possibile inoltre cogliere appieno il senso di trascendenza della persona, che anche nel periodo tragico della propria vita mantiene una propria insopprimibile dignità. È grazie al riconoscimento del valore eccedente della persona che il racconto svela il proprio senso profondo e il suo essere possibilità di incontro e di scambio. Come rileva opportunamente Nicola Gardini: «Né la cartella clinica né una narrazione letteraria sono l’esperienza vissuta o stanno per la persona. La persona è la persona; niente potrà mai coglierla in tutta la sua pienezza vitale; niente potrà mai ridurla a schema»18.
Donatella Pagliacci, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Bibliografia
1 Seneca, Lettera a Lucilio, VIII, 72, 6-7
2 H. G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina Editore, Milano 1994, p. 29.
3 Ricorda su questo punto Nicola Gardini che «tutti ci abituiamo fin da piccoli, prendendo spunto dei modelli familiari e dalle nostre stesse esperienze passeggere (…), a credere che la salute sia l’opposto della malattia, e che riguardi il funzionamento del corpo, e che sia affare privato di ciascuno. Dimentichiamo così che la salute è una condizione assai più complessa e metamorfica; che è costruita e non data; che riguarda lo spirito più ancora che il corpo; che non è fissa, ma si adatta alle circostanze e ai momenti della vita individuale, e al contesto storico (l’abbiamo visto anche troppo bene nel periodo della recente pandemia); che non è soltanto affare privato, ma che è anche questione sociale, anzi politica perché “star bene” significa vivere armoniosamente nella polis: anzi creare la polis» (N. Gardini, Io sono salute, Aboca, Sansepolcro, 2023, pp. 26-27).
4 P. Ricoeur, La differenza fra il normale e il patologico come fonte di rispetto, in P. Ricoeur, Il giusto, 2 Effatà, Cantalupa (Torino), 2007, p. 226.
5 A. Pessina A., Barriere della mente e barriere del corpo. Annotazioni per un’etica della soggettività empirica, in A. Pessina (ed.,), Paradoxa. Etica della condizione umana, Vita e Pensiero, Milano 2010, p. 212.
6 K. Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano 1991, pp. 17-18.
7 P. Ricoeur, La differenza fra il normale e il patologico come fonte di rispetto, p. 237.
8 T. Singer, O. M. Klimecki., Empathy and compassion. An Interpretation and Defense of Buddhist Ethics, in “Current Biology”, vol. 24, 2014, pp. 875-878.
9 Gardini N., Io sono salute, p. 74.
10 Ivi, p. 83.
11 Demetrio D., Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996, p. 21.
12 P. Ricoeur, La differenza fra il normale e il patologico come fonte di rispetto, p. 236.
13 V. Melchiorre, Metacritica dell’eros, Vita&Pensiero, Milano 1977, p. 48.
14 Ivi, p. 52.
15 H. Plessner, Antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008, pp. 25-26.
16 R. Charon, Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019, p. 69.
17 M. Marinelli, Che cos’è la medicina Narrativa? Problemi e metodi, Morcelliana, Brescia 2023, p. 82.
18 N. Gardini, Io sono salute, p. 18.