BIBLIOTECA.
La sezione è dedicata alla creazione di un repertorio di testi fondamentali per l’approfondimento della medicina narrativa e delle medical humanities. L’obiettivo è fornire a tutti coloro che si interessano al tema un punto di riferimento accurato e aggiornato. Attraverso la presentazione o l’analisi critica di opere seminali e di contributi più recenti, si intende tracciare un percorso di lettura che consenta di esplorare le diverse sfaccettature della medicina narrativa.
A cura di Massimiliano Marinelli Centro Studi SIMeN
Nel segno della cura del bene
Il volume curato da Carla Danani, Donatella Pagliacci e Silvia Pierosara raccoglie una vasta gamma di contributi dedicati al filosofo morale Luigi Alici. Questi numerosi scritti riflettono la grande varietà di temi affrontati, e tuttora oggetto di riflessione, dal filosofo. Ho avuto l’onore di partecipare alla presentazione del libro durante un evento a Macerata. In questa sede, ho scelto di riproporre una riflessione sulla quarta sezione del volume, intitolata “la fragilità e la cura”. Il mio intento è stato quello di collegare il contenuto dei dieci saggi che la compongono con il pensiero di Alici sul tema della cura. Non si tratta, quindi, di una recensione, bensì di un dialogo continuo e appassionato sui temi della cura, che desidero condividere con i lettori del sito.”
Ma di quali concetti di cura trattano i dieci saggi della quarta parte del volume?
Dalla lettura di tutti i saggi, emerge l’idea condivisa di una cura che, in modo peculiare, comprende sia lo strato naturale del vivere, sia la dimensione dell’esistere (Alici, 2011, p.9), abbracciando la vita umana anche come vita morale. In tal modo la vita umana è qualificata da quell**’insieme di azioni e comportamenti riconducibili e valutabili entro la scala del bene e del male, di cui il soggetto umano si riconosce protagonista e responsabile** (Alici, 2011 p. 11) e nei quali si ritrova per intero la cifra della cura.
In questa idea comune, come Luigi Alici ha espresso e Carla Danani ha rilevato all’inizio del suo saggio. la cura si profila come una forma di protezione e promozione della vita umana nella sua fragilità costitutiva, in una prospettiva relazionale capace di raccordare la trama dei rapporti corti alla rete dei rapporti lunghi che investono le forme della convivenza ( Alici, Pierosara, 2022, p.16) (Danani, 2022 p. 215).
Nei dieci saggi, insomma, attraverso la cura risuona la verità che in quanto soggetto al mondo l’essere umano riceve da esso quanto non può darsi da solo, ma in quanto soggetto nel mondo egli può restituire più di quanto riceva, di cui il mondo stesso sarebbe altrimenti privo (Alici, 2011 p, 10).
E’ nella cifra di questa dimensione che Ivo Lizzola propone il tema della cura dei bambini e del futuro del mondo. Attraverso il ricordo di Korczak che mostra come grazie al bambino noi impariamo a diventare donne e uomini migliori (Lizzola, 2022 p. 272), il saggio evoca un’immagine dolorosa capace di mettere assieme l’etica della cura con l’assoluta incuria per l’umano.
Siamo nel ghetto di Varsavia il 5 agosto 1942, duecento bambini escono dalla casa dell’orfano, mano nella mano, vestiti con i loro abiti migliori, ordinati in file di quattro, accompagnati dai loro educatori con il Dottor Korczak che chiude il corteo. Si avviano tutti e duecento al campo di sterminio di Treblinka; il dottore morirà il giorno dopo durante il trasporto (Lizzola, 2022 p. 276). La cura attraverso la quale sono stati accolti, nutriti, educati e vestiti degli abiti migliori si frantuma di fronte all’immane potenza del negativo dell’incuria totale verso la dignità della persona umana..
Forti di questa accezione allargata della cura, Veronica Guardabassi, Elisa Cirilli e Paola Nicolini ci propongono una riflessione del gioco inserito nel ciclo della vita e del benessere che può essere efficace anche nella terza età e Gabriele Gabrielli nel lavoro tra cura e fragilità, conferma come “il nostro vivere sia generato e rigenerato sempre da qualche processo di cura che ne determina anche la sua qualità. Insomma la vita è buona quando è accompagnata dalle variegate forma di cura di cui facciamo esperienza” (Gabrielli G., 2022, p. 241). Gabrielli ci invita, dunque, a ricercare e discutere le forme di cura del lavoro.
Ed ecco che è necessario ascoltare Antonio Da Re che ci conduce alle origini della cura: Heidegger sulle tracce di Aristotele, riportando il mito di cura di Igino che lo stesso Heidegger ha inserito nel suo essere e tempo:
la Cura mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto interviene Giove. La cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove consente volentieri ma quando la cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto ,Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. […]Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo; ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è fatto di humus (terra) ».
Luigi Alici ci insegna come la dea Cura della favola sia il punto di contatto enigmatico tra umano e divino e introduca un paradigma della cura come modello relazionale che prevede custodia e responsabilità: la cura risponde a Saturno (Alici, 2016, 165). Infine, la cura non viene evocata per curare le ferite inflitte, ma per farsi carico dell’uomo in quanto tale, con la sua costitutiva fragilità, intessuta di vulnerabilità e fallibilità.
Siamo di fronte alla fragilità: il secondo termine al quale è dedicata la quarta parte del volume.
Anche in questo caso, i saggi rispondono all’unisono a quanto già Luigi Alici ha espresso nei suoi testi (Alici., 2016, 2017). La cura è la risposta propriamente personale alla fragilità umana come condizione che indebolisce e contemporaneamente impreziosisce la finitezza. Siamo giunti qui al punto cruciale della doppia articolarità della cura tra ferita e limite, come sottolinea Fabiola Falappa nella fragile creaturalità e unicità della cura (Falappa, 2022, p. 233).
Siamo di fronte alla ferita che noi medici conosciamo bene, sia in senso letterale come una lesione che incide la carne e le ossa, sia in senso traslato come un’alterazione anomala dell’equilibrio psico-fisico, morale e spirituale della persona. La vediamo nella prassi quotidiana, nella cifra del patire dell’Homo patients, nel mosaico delle forme antropologiche che il dolore e la sofferenza assumono. Di un “dolore che pietrifica la soglia” come avverte Carla Danani (Danani, 2022 p. 216) o come insegna Ricoeur che rompe la continuità narrativa della nostra vita. Seppure nell’ampia gamma delle ferite, rispetto alla materialità del dolore, la sofferenza possa essere considerata come il correlato esistenziale di un rapporto “ferito con il mondo”, (Alici, 2017 p. 35). Carla Danani ci invita a trovare modi perché la persona abbia la capacità di soffrire il dolore patito ,di assumerlo e portarlo oltre se stesso; soffrire diviene, quindi, un certo mettersi a riparare che può essere trasformativo e finanche generativo: è un modo dell’esercizio del prendersi cura di sé quando la ferita è accaduta (Danani., 2022 p. 220).
Se il limite è una condizione propria e insuperabile dell’umano (Alici, 2017 p. 37), allora la ferita (ontica) presuppone il limite come sua condizione di possibilità e il limite (ontologico) preannuncia la ferita come una eventualità prevedibile anche se inaccettabile. (Alici, 2017 pp. 37-38).
Dalla lettura dei contributi appaiono, quindi, due accezioni di cura: una più ristretta come pratica di cura che oggi si condensa nel trattamento dell’ente malattia e una più allargata della quale abbiamo parlato e che ora si precisa recuperando l’idea antica di cura, sia come servizio therapeia (Curi, 2017, p. 53), sia come una inquietudine verso qualcuno che ci rende sollecito nell’aiutare. Si profila la cura come un vero paradigma culturale e modalità esistenziale (Alici, 2017, p. 44) con l’opportunità di coniugare quindi il to cure con il taking care e il caring for (Da Re, 2022 p. 224). Un paradigma culturale che stenta a penetrare nel territorio della medicina. Questa difficoltà di far entrare nel campo percettivo della Medicina la persona nella sua integralità è un errore già commesso dai medici greci, come ricorda Maurizio Migliori, citando il Carmide nel suo il concetto di cura in Platone: i medici greci, pur dovendo prestare attenzione all’intero (156E) che prevale sulla parte, fanno però l’errore di considerare intero solo il corpo, a differenza della scuola medica tracia (Migliori, 2022 p. 295).
La Medicina scientifica, tuttavia, fa il suo lavoro: tramite il rivolgere l’attenzione, preleva un oggetto dal campo percettivo, lo porta in primo piano, separandolo dal contesto, per poterlo possedere e conoscere.
L’oggetto a cui la medicina presta attenzione è il corpo in quanto cosa (Korper): il corpo vivente (Leib) che sosta nel male e abita diversamente il mondo, almeno all’inizio, rimane al di fuori di una tale percezione. La persona rappresenta lo sfondo dal quale il korper viene in mostra. Questo punto di vista che ha permesso un’efficacia senza precedenti nel trattamento degli enti malattia, e che determina le procedure e l’architettura nelle quali oggi si articola tale trattamento, rischia di emarginare l’accezione allargata della cura della quale si sta parlando, con un disconoscimento della integralità della persona del quale sono vittime sia i pazienti, sia i professionisti della salute.
Quando nel libro ci si riferisce al triplice modo di coniugare il verbo curare: nella forma passiva, attiva e riflessiva, si fa esplicito riferimento alla cura di sé (Da Re, 2022, Migliori M., 2022). Ecco credo che questo invito alla cura del sé debba essere tenuto in debito conto proprio da noi medici che rischiamo di pensare che sia sufficiente trattare le malattie per curare le persone. Pratichiamo una professione “ impossibile ” come ci ricorda Francesco Stroppa: una professione che ci interpella personalmente sul senso del soffrire e del morire, ci impone dei limiti e richiede un certo esercizio di umiltà, indispensabile per mettersi al servizio di un percorso incerto e imprevedibile (Stroppa F.., 2022 pp. 333-334). La cura di sé è ineludibile per riuscire ad adottare una corretta postura (ethos umanitario) e comprendere come il curare presupponga sempre la presenza dell’altro come soggetto e non solo oggetto di cura. In questo senso Franco Riva, in Malattia e cura. Filosofia del dialogo e Narrative Medicine, introduce la medicina narrativa – e per questo lo ringrazio personalmente- nel dialogo con la medicina basata sulle evidenze (Riva, 2022, p. 323) alla ricerca di una integrazione sistematica. La connessione del pensiero di Marcel con quello di Rita Charon, che ha introdotto la medicina narrativa, si evidenzia nel rapporto dinamico tra attenzione, rappresentazione e connessione (Riva, p. 324, Charon R. 2019 pp. 167-186) quel nesso originario tra persona e relazione che Adriano Fabris -incursione nella parte prima del volume- sviluppa nel senso della comunicazione (Fabris A., 2022 p. 56), per cui l’etica della cura è anche etica della comunicazione e la medicina narrativa diviene una pratica comunicativa che orienta la cura verso la persona (Marinelli, 2021).
Si tratta ,infine, come afferma, con commossa gratitudine verso il maestro Donatella Pagliacci, di rimettere in campo la fragilità e la vulnerabilità intendendole come le modalità dell’essere umano, anzi come le sue forme più preziose (Pagliacci, 2022 p. 307). Ciò che l’etica della cura tiene a cuore e ciò che noi medici dovremo tenere sempre presente è che solo in quel particolare essere vivente in cui coabitano il limite e la ferita, il fragile e il prezioso diventano attributi inseparabili: la fragilità non rappresenta un attributo estrinseco, che pesa in senso avversativo (prezioso ma fragile), né propriamente in senso concessivo (prezioso sebbene fragile), ma fragile dunque prezioso (Alici, 2016 p. 44).
Massimiliano Marinelli
bibliografia
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