Le STORIE è una sezione dedicata alle storie e alle esperienze di malattia e di cura, per dare voce alla dimensione soggettiva del paziente e di coloro che ne hanno cura. Questo spazio accoglie i vissuti personali legati alla malattia, offrendo ai lettori una comprensione più profonda delle esperienze uniche, della fragilità e della vulnerabilità che accomunano chi ha cura e chi è curato.

Massimiliano Marinelli Centro Studi SIMeN  16 maggio 2025

L’insegnamento di Vincenzo

dall’opuscolo “Mi racconto a voi” prodotto da AIL Lecce ODV

Premessa

L’Associazione Italiana contro e Leucemie, Linfomi e Mieloma (AIL) – Sezione di Lecce (AIL LECCE) ha recentemente pubblicato l’opuscolo ‘Mi racconto a voi‘, un’opera nata dalla collaborazione di professionisti e volontari. Questo lavoro sottolinea un concetto fondamentale: l’importanza di ascoltare i pazienti. Essi non sono semplici numeri nelle statistiche, ma individui con storie ed esperienze uniche. Desidero ringraziare Mario Tarricone, presidente di AIL Lecce ODV e responsabile del progetto, per averci permesso di condividere una di queste storie. Vi invito a mettervi in una posizione di ascolto, per  scoprire assieme. come questa storia possa offrire insegnamenti preziosi e condurci a una comprensione nuova e più profonda.

La storia

L’arma che esorcizza il male, la leggenda di V

Vincenzo 35 anni,  diagnosi: LNH, Linfoma non-Hodgkin.

Questa storia inizia nel 2013 quando, durante un periodo di lavoro molto intenso, ho iniziato a sentire qualcosa che non andava e ho notato un nodulo sul collo, un linfonodo si era ingrossato. Ho subito chiamato mio padre e poi mio zio che è medico e sono iniziati gli accertamenti. Ho iniziato a fare controlli e visite di ogni genere, un vortice di medici. Intanto continuavo a lavorare, senza orari. Al linfonodo è seguito un rigonfiamento nella zona sovra-claveare, una specie di cisti. Sentivo che c’era qualcosa che non andava ma lavoravo tantissimo e non avevo il tempo di preoccuparmi. Intanto gli accertamenti erano tutti negativi, non si capiva cosa avessi. Feci un esame citologico della cisti e poi mi ricoverarono in dermatologia in attesa dei risultati. Nonostante sia un tipo ansioso, fino a quel momento avevo sempre pensato fosse qualcosa di poco grave perché tutti gli esami andavano bene. Finché non mi sono trovato a parlare con una dottoressa che mi diceva che c’era la malattia, era grave e dovevo affrontare un percorso difficile. Io non riuscivo a capire, mi sentivo confuso. Mi hanno fatto l’aspirato midollare e quando ho rivisto i miei genitori avevano mascherine, guanti… Sono stato trasferito in ematologia. È stato difficile, i famigliari non potevano entrare, regole rigide, ambiente tosto. Mio padre mi continuava a dire che stavano cercando di approfondire, di capire cosa c’era, cercava di proteggermi. Sono rimasto in reparto finché non è arrivata la conferma della diagnosi, avevo un linfoma. Quel momento è stato traumatizzante ma per certi versi mi sentivo anche sollevato perché finalmente si capiva cos’era. Io non sapevo nulla di malattie ematologiche, ero del tutto impreparato, e non ne volevo sapere niente. Ma vedevo gli altri pazienti che, tutto sommato, stavano bene e questo mi aiutava, il rapporto con loro è stato importantissimo. Cercavano di tranquillizzarmi, di sostenermi. Ho deciso di fare la terapia vicino alla mia famiglia. Ho lasciato Roma e il lavoro che stava iniziando. Il primario mi ha detto: “ora ti curi, e poi che vuoi fare?”. Io non sapevo nemmeno se sarei sopravvissuto, non pensavo che ci sarebbe stato un dopo. Quelle parole mi hanno aiutato. E mi ha aiutato la famiglia, i miei genitori e la mia ragazza, hanno fatto squadra e ci sono stati sempre. Penso che l’80% della guarigione sia merito loro. Mi hanno sempre protetto, mi hanno nascosto quanto fosse grave. Sono stati molto bravi perché in certi casi anche una parola fuori posto può sconvolgere. La comunicazione delle cose è importante, ogni persona è diversa e può reagire in modi diversi. Penso che anche i medici dovrebbero essere istruiti su come comunicare con i pazienti. Io non volevo sapere i dettagli, volevo solo sapere cosa dovevo fare. Non mi interessava approfondire. Avevo un piano di terapie e sapevo che dovevo seguirlo. Quando si trova l’equipe medica di cui fidarsi, bisogna fidarsi al 100%. Se dovesse ricapitare mi comporterei allo stesso modo. Il primo approccio terapeutico è stato ambulatoriale, il farmaco non mi ha dato grandi disturbi, i primi mesi ero abbastanza tranquillo, potevo uscire, fare una vita normale. Quando ho iniziato a perdere i capelli mi sono sentito davvero malato. Ho smesso di fare tante cose. Ho scelto di non vedere molte persone, era difficile spiegare cosa stava succedendo. Non sopportavo la commiserazione e non volevo limitare gli altri nelle loro attività. Ho visto persone che hanno continuato a uscire, vedere gente. Io mi sono trovato bene nel mio dolore, non ho paura di soffrire perché so che poi passa e dopo sono più forte. La remissione è stato un momento molto intenso. Per la prima volta ho avuto la certezza che potevo farcela. Simbolicamente, ho scelto di fare l’esame di controllo nell’ospedale in cui era stata fatta la prima diagnosi. La PET era pulita, la remissione era completa. Da lì è iniziato un percorso per riappropriarmi della vita di prima. Ho ricominciato a uscire, vedere gli amici, mangiare quello che volevo. Restava solo il catetere. Poi c’è stata la recidiva. Me ne sono accorto da solo, tornando da un viaggio con amici mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava, un altro nodulo. E mi è ricaduto tutto addosso. Le recidive sono la parte più brutta della malattia. È come quando stai uscendo dall’acqua a respirare e un’onda ti riporta giù. Devi ricominciare. Penso sia normale avere un rifiuto, richiudersi nella depressione. Ho vissuto la disperazione, lo sconforto. La recidiva rappresenta l’oscurità totale, il fondo del mare. Anche perché sai che ogni recidiva si porterà via una delle armi che hai a disposizione e a un certo punto saranno finite. Stavolta ho fatto il trapianto autologo. Prima c’è la raccolta delle cellule ed è semplice, poi c’è la camera sterile. È il momento in cui saluti tutti, ti fai una doccia ed entri. Ci sono rimasto 15 giorni, è stato un periodo molto difficile. È come stare in un ambiente senza tempo, estraniante. Sei solo, e comunichi con i tuoi attraverso un vetro. E dentro c’è da lottare, dal mattino presto e per tutto il giorno, si è costantemente attaccati alle macchine. Bisogna lavarsi, mangiare, andare in bagno, anche quando non ce la fai. E intanto aspetti. Ogni giorno c’è la conta dei globuli bianchi e sai che quando saranno 0 ti faranno il trapianto. Fatto il trapianto, riparte l’attesa, la conta dei bianchi. Quando arrivano al numero giusto puoi uscire. Il ritorno a casa è stato un momento di luce. Ero a casa, a pezzi, ma a casa. È iniziata la ripartenza, ma quando mi sembrava stesse andando tutto bene, di nuovo mi sono accorto che qualcosa non andava. Una nuova recidiva. si è spenta la luce. Non è stato facile. Ho pensato che a quel punto c’era il secondo trapianto e se non andava bene non avrei avuto più armi. Come la prima volta, c’è stato il buio e poi è venuta fuori di nuovo la voglia di combattere. Bisogna toccare il fondo per poi risalire. Le persone che avevo accanto e tutti i progetti lasciati in sospeso mi hanno dato la forza di reagire, di ricominciare a lottare. Di risalire dal fondo del mare. Questa volta c’era il trapianto da donatore, tutta la famiglia ha fatto la tipizzazione. Questa cosa dovrebbe essere insegnata nelle scuole, la donazione è la cosa più bella, per chi la riceve significa vita. Il giorno in cui mi hanno chiamato per dirmi che avevano trovato un donatore compatibile è stato incredibile. Conoscevo già la camera sterile e questo mi ha aiutato. Ma il secondo trapianto è più difficile, i rischi sono maggiori, avevo più paura. Il rigetto è una possibilità ma non ci ho pensato davvero, volevo farlo e basta. Ero molto stanco, non riuscivo a mangiare. Vomitavo. Prendevo tantissime pillole. Dopo 25 giorni mi hanno detto che potevo tornare a casa. Ero contentissimo ma stremato. Il primo momento a casa è stato difficilissimo, ma ero a casa. Ho percepito piano piano la forza che tornava e con quella la convinzione che stavolta ne ero uscito. Non ho più avuto recidive. I controlli sono stati serrati e poi si sono diradati. Quando sono tornato a lavorare è tornata la normalità. Poi sono andato a convivere. Quello è stato il momento della guarigione. L’inizio di un nuovo capitolo. A volte mi capita di sognare di essere ancora nella camera sterile e ho ancora timore quando ho un malessere fisico o quando faccio i controlli medici. Non credo alla retorica che la malattia ti dona qualcosa. Per me non è così. Però la malattia mi ha fatto crescere. Dove sono adesso è il frutto di tutto quello che ho attraversato. Ho affrontato la malattia nel modo che per me è stato più giusto e ora sono molto maturato. Oggi mi sento bene, mi sento di nuovo nel gioco. Se dovessi dare un nome a questa storia lo prenderei in prestito da uno dei videogiochi di cui sono appassionato da sempre, nel gioco, come nella realtà, con le armi si sconfiggono i nemici, e forse, simbolicamente, si esorcizzano le paure. “

L’insegnamento di Vincenzo

La storia di Vincenzo, condivisa grazie al progetto “Mi racconto a Voi” di AIL LECCE, offre una preziosa finestra su un’esperienza di malattia oncologica. Il suo racconto illumina le profonde divergenze esperienziali e semantiche che si creano, di fatto,  tra chi cura e chi è curato, offrendo spunti di riflessione importanti per studenti di medicina e tutti i professionisti della salute. Vincenzo ci insegna che, pur condividendo lo stesso spazio fisico dell’ospedale e un vocabolario apparentemente comune, pazienti e curanti abitano spesso “mondi paralleli”, dove le medesime parole assumono significati e risonanze emotive radicalmente differenti.

Parole e semantiche

Negli anni formativi, gli studenti di medicina si immergono in un universo linguistico nuovo, popolato non solo dai  termini “classici” come “diagnosi”, “prognosi”, “anamnesi”, ma da una miriade di acronimi e “dialetti” specialistici. In oncoematologia, sigle come “BOM” (Biopsia Osteomidollare), “LNH” (Linfoma Non-Hodgkin), “TCSE” (Trapianto di Cellule Staminali Ematopoietiche), o protocolli come “ABVD” e “escalated BEACOPP”, diventano strumenti quotidiani per descrivere, classificare e trattare la malattia. Lo specializzando impara a padroneggiare le complessità procedurali del TCSE, comprendendone le fasi, la logica e le tempistiche.

Tuttavia, questa competenza tecnica, pur indispensabile, rischia di rimanere distante dall’esperienza vissuta del paziente, dalla sua “illness”. Prima che un “rigonfiamento” diventi un “linfoma” attraverso il processo diagnostico, per la persona è un’alterazione del proprio “essere nel mondo”, una percezione fisica che genera ansia e incertezza. La diagnosi medica fornisce un nome, una categoria nosologica, ma non esaurisce il significato che quel sintomo assume nella vita del paziente.

La comunicazione.

Vincenzo sottolinea con forza l’importanza cruciale della comunicazione: “anche una parola fuori posto può sconvolgere”. Questa affermazione dovrebbe risuonare profondamente in ogni professionista sanitario. Egli evidenzia come la sensibilità e l’adattamento al singolo individuo siano fondamentali: “La comunicazione delle cose è importante, ogni persona è diversa e può reagire in modi diversi. Penso che anche i medici dovrebbero essere istruiti su come comunicare con i pazienti. Io non volevo sapere i dettagli, volevo solo sapere cosa dovevo fare. Non mi interessava approfondire. Avevo un piano di terapie e sapevo che dovevo seguirlo”.

Le parole del medico, seppur precise dal punto di vista scientifico e necessarie per il consenso informato, possono avere un impatto devastante o, al contrario, rassicurante, a seconda di come, quando e a chi vengono comunicate. La richiesta di Vincenzo di non volere “dettagli” ma di sapere “cosa doveva fare” non è una negazione della gravità, ma un bisogno di concretezza e direzione in un momento di grande smarrimento. Questo ci interroga sulla nostra tendenza a fornire informazioni secondo i nostri schemi, piuttosto che modulandole sulle reali capacità ed esigenze di ascolto del paziente in quel preciso momento.

Il “sentirsi malato”

L’esperienza della malattia va oltre la diagnosi e il trattamento. Per Vincenzo, il momento in cui ha iniziato a “perdere i capelli” è coinciso con il “sentirsi davvero malato”. Questo evento, fisicamente visibile, ha avuto profonde ripercussioni sulla sua identità e sulle sue relazioni sociali: “Ho smesso di fare tante cose. Ho scelto di non vedere molte persone, era difficile spiegare cosa stava succedendo. Non sopportavo la commiserazione e non volevo limitare gli altri nelle loro attività”.

Queste parole ci ricordano gli aspetti antropologici del soffrire: la malattia modifica la percezione di sé, il rapporto con il proprio corpo e l’interazione con la comunità. La scelta di isolarsi per evitare la commiserazione o il peso di dover “spiegare” è una strategia di protezione che evidenzia la difficoltà di condividere un’esperienza così totalizzante con chi non la vive direttamente.

Il ritmo della malattia

Termini come “Trattamento, remissione, recidiva, trapianto, recidiva” scandiscono il percorso clinico con la loro logica medica, fatta di protocolli, procedure rigorose ed esami di controllo. Per il professionista, queste parole definiscono tappe di un percorso terapeutico noto. Per il paziente, invece, rappresentano un vissuto emotivo intenso e spesso drammatico: “vivere il trattamento, attendere la remissione, scoprire la recidiva, fare il trapianto”.

La “PET pulita” e la “remissione completa” non sono solo dati clinici, ma rappresentano per Vincenzo l’inizio di un percorso per “riappropriarmi della vita di prima”. La recidiva, al contrario, è un crollo: “Me ne sono accorto da solo… un altro nodulo. E mi è ricaduto tutto addosso. Le recidive sono la parte più brutta della malattia”. Egli descrive questa esperienza come “disperazione, sconforto… l’oscurità totale, il fondo del mare”. Queste metafore potenti ci fanno intuire l’abisso emotivo che si cela dietro la parola “recidiva”, un significato che va ben oltre la sua definizione medica.

L’esperienza del trapianto è emblematica di questa divergenza. Per il medico è una procedura complessa ma standardizzata. Per Vincenzo, la camera sterile è un “ambiente senza tempo, estraniante”, un luogo di solitudine, lotta quotidiana e attesa angosciante, dove la comunicazione con i propri cari avviene attraverso un vetro. “E dentro c’è da lottare, dal mattino presto e per tutto il giorno, si è costantemente attaccati alle macchine. Bisogna lavarsi, mangiare, andare in bagno, anche quando non ce la fai. E intanto aspetti. Ogni giorno c’è la conta dei globuli bianchi e sai che quando saranno 0 ti faranno il trapianto”. Il secondo trapianto acuisce la paura: “è più difficile, i rischi sono maggiori, avevo più paura”.

una  provvisoria conclusione 

La testimonianza di Vincenzo, dunque, non è semplicemente il racconto di una battaglia vinta contro la malattia, ma si eleva a un vero e proprio insegnamento per tutti noi professionisti della salute. Emerge con chiarezza come la sua esperienza vissuta racchiuda un “tipo di conoscenza” unica, una sapienza incarnata alla quale il medico, con tutta la sua competenza, può accedere solo grazie alla narrazione del paziente. È un sapere che non si trova nei trattati né si apprende nelle aule universitarie, ma che scaturisce dall’esperienza della sofferenza, della paura, della speranza e della resilienza.

Riconoscere il valore di questa conoscenza esperienziale apre la via a una profonda trasformazione della relazione terapeutica. Può iniziare a mitigare quella tradizionale asimmetria che spesso caratterizza il rapporto tra medico e paziente, dove il primo è il detentore del sapere e il secondo il mero ricettore di cure. Ascoltare attivamente e accogliere la narrazione di chi vive la malattia significa entrare in una dinamica di reciprocità, un dare e un avere che arricchisce entrambi. In questo scambio, ciò che “ritorna indietro” al curante, dopo che la parola è andata e l’ascolto si è fatto profondo, è qualcosa di estremamente “fragile e prezioso”. È la comprensione più autentica dell’impatto della malattia sulla vita di una persona, è la possibilità di vedere il mondo attraverso i suoi occhi, è l’opportunità di rendere la propria pratica medica non solo più efficace, ma soprattutto più umana e compassionevole. L’insegnamento di Vincenzo è un invito a coltivare questa reciprocità, a valorizzare ogni storia come un dono che, se accolto, può illuminare il cammino verso una cura che ponga al centro la persona nella sua interezza.

Per approfondire

Il  Progetto MI RACCONTO A VOI

Una panoramica al sito AIL Lecce