In questa sezione, gli articoli si concentreranno su medicina narrativa, medical humanities ed etica della cura. Analizzando studi pubblicati su riviste scientifiche autorevoli, si tenterà di offrire un punto di partenza per un dialogo interdisciplinare che coinvolga tutti i professionisti della salute. L’obiettivo è contribuire alla costruzione di una pratica clinica più completa e personalizzata, che valorizzi sia l’efficacia degli interventi che la dimensione umana dell’esperienza di malattia

Massimiliano Marinelli  Centro Studi SIMeN  30 maggio 2025

La prognosi di Stephen Gould

Premessa

“La prognosi, presentata spesso come una stima temporale, vive primariamente all’interno del linguaggio biostatistico. Essa emerge dall’analisi di dati aggregati, studi su popolazioni e modelli probabilistici. In questo senso, la prognosi fa parte di una ‘narrazione’ scientifica interna alla struttura della medicina, un costrutto linguistico che cerca di dare forma e prevedibilità all’andamento delle malattie. Questa narrazione non è una verità assoluta, ma una rappresentazione basata su dati e inferenze. La prognosi è uno degli elementi più delicati e complessi nel rapporto tra medico e paziente. Essa non è solo una previsione sull’andamento della malattia, ma anche un punto di confronto tra la conoscenza scientifica del medico e la percezione del paziente. Questa relazione è intrinsecamente asimmetrica: il medico, forte della sua formazione e della sua esperienza clinica, può immediatamente proiettarsi nel futuro clinico del paziente, visualizzando possibili scenari e progressioni della malattia. Al contrario, il paziente potrebbe non essere ancora consapevole di ciò che lo attende, trovandosi a navigare in un territorio sconosciuto e incerto. Si tratta di una  disparità nella conoscenza del futuro clinico che, acuendo ulteriormente l’asimmetria costitutiva tra medico e paziente, può influenzare profondamente la dinamica della relazione terapeutica.

L’oggetto scientifico della prognosi

Dal punto di vista strettamente scientifico, la prognosi riguarda l’andamento della malattia e il deterioramento delle funzioni biologiche degli organi colpiti. Il deterioramento fa riferimento al “corpo-cosa” (Körper), dove l’ente malattia è contenuto e dove avviene lo scontro tra la patologia e le terapie mediche. La prognosi preannuncia gli esiti di questo conflitto, talvolta anticipando un fallimento nella lotta contro la malattia.

Il salto cognitivo del medico

Tuttavia, il medico, pur essendo pienamente consapevole della natura statistica e probabilistica della prognosi, non può fare a meno di compiere un vero e proprio ‘salto cognitivo‘. Accogliendo dati e probabilità inerenti l’andamento dell’ente malattia, non della persona, quando esprime una prognosi in termini temporali, ad esempio ‘sei mesi di vita’ o ‘un anno’, inevitabilmente si riferisce alla persona intera, e non più soltanto all’entità patologica. Questo passaggio da un dato astratto scientifico a una narrazione profondamente personale è un’operazione complessa: evidenzia come sia impossibile, separare completamente la scienza dall’esperienza umana. Il medico non si limita a interpretare numeri e statistiche, ma, nel momento stesso in cui le esprime, si confronta con le implicazioni esistenziali della malattia, con la persona che ha di fronte, con la sua storia e con il suo futuro. Il dato prognostico che esprime solo una probabilità  si trasforma così in una visione concreta, quella di ‘una persona che  vivrà sei mesi’ o ‘una persona che vivrà un anno‘, e non più solamente quella di un processo patologico con una determinata evoluzione.  

La percezione della probabilità come certezza

Nel passaggio della prognosi dal mondo statistico a quello reale esiste il rischio che  la probabilità venga “percepita” come certezza.  Ciò può manifestarsi  sia per il medico che pronuncia la prognosi, sia per il malato che la riceve.

Dal lato del medico, la formulazione stessa della prognosi, soprattutto quando espressa in termini temporali definiti (“sei mesi”, “un anno”), può involontariamente trasmettere un senso di inevitabilità. Il medico, pur consapevole della natura probabilistica della stima, potrebbe, nel momento dell’enunciazione, interiorizzare la previsione come più solida e certa di quanto non sia in realtà

Questa internalizzazione è  profondamente influenzata dal rapporto che il medico stesso ha con la sofferenza, la malattia e la morte e può influenzare la stessa modalità con la quale si comunica la prognosi.

Per il paziente, l’impatto della prognosi come ‘certezza’ può essere ancora più profondo. Sentire una stima temporale definita può generare un senso di condanna, di destino ineluttabile. La probabilità, che per sua natura lascia spazio all’incertezza e alla speranza, viene sostituita da una previsione che sembra sigillare il futuro. 

La lezione di Stephen Jay Gould

Per tali motivi si segnala volentieri l’esperienza di Stephen Jay Gould, rinomato paleontologo e divulgatore scientifico che ha descritto in un articolo, non a caso accolto dal primo volume collettaneo di narrative based medicine..  

 Nel 1982, Gould scoprì di essere affetto da un mesotelioma addominale, una forma rara e aggressiva di cancro con una mediana di sopravvivenza di otto mesi. Dopo un momento iniziale di smarrimento, utilizzò la sua conoscenza della statistica per reinterpretare la prognosi.

La sua comprensione si fece più profonda quando realizzò che la mediana, spesso presentata come un dato ineluttabile, rappresentava in realtà unicamente il fulcro di una distribuzione statistica. Intorno a quel valore centrale, intuì, si dispiegava un universo di possibili traiettorie individuali, caratterizzate da una notevole variabilità. Abbandonò quindi la visione della prognosi come un verdetto definitivo e immutabile, eleggendola invece a punto di riferimento iniziale, una base di partenza da cui poter attivamente influenzare il proprio destino.

Scelse di aderire a protocolli sperimentali, intraprendendo un percorso terapeutico proattivo e consapevole. Il suo atteggiamento costruttivo e la sua partecipazione attiva al piano di cura si rivelarono fattori determinati. Il suo impegno tenace e la sua fiducia nella ricerca portarono a un esito straordinario: visse inaspettatamente per altri due decenni, smentendo ampiamente le previsioni iniziali. La sua esistenza si protrasse fino al 2002, quando si spense per una condizione medica del tutto indipendente dal mesotelioma che lo aveva inizialmente colpito. La sua storia divenne un potente esempio di come la resilienza, l’adesione alla sperimentazione medica e un approccio positivo possano concorrere a ridefinire i limiti imposti dalla statistica.

Bibliografia

Gould S. J., the median isn’t the message in  Greenhalgh T., Hurwitz B.,(edit)  Narrative based Medicine, dialogue and discourse in clinical practice, BMJ 1998, pp. 29-33.

la copertina ritrae una panda che suona il flauto

Stephen Jay Gould (1941 – 2002)

Geologo e zoologo, considerato uno dei divulgatori scientifici più prolifici ed influenti della sua generazione. Ha ottenuto il PhD presso la Columbia University (1967) e ha proseguito la sua attività alla Harvard University dove è stato professore di Geologia e Paleontologia dal 1973, e di Zoologia dal 1982. Ha soprattutto studiato la teoria dell’evoluzione, la storia naturale e il ruolo della scienza nella società. Molto nota la teoria (1972), elaborata con N. Eldredge detta ”dell’evoluzione attraverso equilibri intermittenti”, che si differenzia da quella tradizionale e mette in discussione precedenti valutazioni circa la velocità di evoluzione.

Nel 1974, Gould iniziò a scrivere mensilmente nella rubrica “The View of Life” per la rivista Natural History, del museo americano di storia naturale. Nel giro di due anni questa rubrica divenne una delle serie più popolari sulla divulgazione della storia naturale. Molti degli articoli per la rivista scientifica Natural History sono stati pubblicati ne Il  pollice del Panda (1980).