In primo piano: esperienze ed opinioni. Questa sezione apre un dialogo con professionisti impegnati nel sistema delle cure, con un’attenzione speciale alla medicina narrativa. Esploreremo anche l’etica della cura, le medical humanities e la comunicazione, per offrire una visione articolata e completa della sanità.

 A cura di Michela Fedrizzi

Intervista a Paolo Trenta

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Cari lettori, ho il piacere di introdurre l’ intervista al dott. Paolo Trenta, per i facilitatori come me, si tratta di rincontrare una delle persone che con competenza e gentilezza ci ha guidato nel percorso di facilitazione. Il dott. Trenta ha messo a disposizione della medicina narrativa la sua formazione sociologica e ci ha da sempre invitato ad allargare lo sguardo per incontrare davvero l’altro.

Condividiamo il suo pensiero, come espresso anche nel recente testo “La postura narrativa” e il racconto di alcune esperienze concrete vissute con i partecipanti nella pratica della Medicina Narrativa.

  1. Nel suo libro “La postura narrativa. I modi di essere della cura” lei descrive una postura aperta come essenziale per la pratica clinica. Potrebbe spiegare meglio cosa significa assumere concretamente una postura aperta nella pratica clinica quotidiana?

La postura è una proprietà emergente che si costruisce dalla interazione tra diverse proprietà costitutive, è il prodotto delle esperienze, della formazione, degli incontri e può assumere diverse vesti. Ci sono infatti, diverse posture di cura; c’è quella cosiddetta “scientista” la cui caratteristica principale è di adottare le prove di efficacia della EBM come unica guida rigorosa dell’approccio clinico, c’è poi quella “informativa” centrata su una relazione con il paziente basata su “asettiche” trasmissioni di notizie circa la sua malattia ed il trattamento di essa.

C’è una postura “collusiva” in cui viene ricercata una alleanza, un patto implicito che porta a comportamenti spesso disfunzionali, c’è poi una postura “compassionevole” nella quale prevale una vicinanza empatica ed affettiva al paziente.

Quelle descritte sono ovviamente classificazioni generiche, utilizzate a fini esplicativi e didattici.

C’è poi la postura che nel libro ho definito aperta ed esploratrice caratterizzata da un atteggiamento di costante ricerca, di esplorazione di curiosità, di meraviglia, con una disponibilità a farsi “spiazzare” da ciò che non era prevedibile.

Una ricerca dello “specifico” di quella persona in condizioni di sofferenza che ci chiede di aiutarlo, e non di ciò che potrebbe vere in comune con altre situazioni, un atteggiamento disponibile alla scoperta, senza lo schermo del “già noto e conosciuto”, senza le gabbie delle liste e delle classificazioni. Una ricerca ogni volta nuova e diversa che sappia mettere tra parentesi tutte le nostre pre-comprensioni e tutta la nostra dotazione epistemica.

 

  1. Lei ci ricorda nel suo testo che pur nel potenziamento di sofisticati strumenti diagnostici della medicina, lo strumento più importante resta il colloquio medico paziente. Ma quali sono le condizioni che aprono dunque al dialogo?

È necessario innanzitutto un atteggiamento di riconoscimento di chi abbiamo davanti, della sua singolarità, della sua dignità, che lo sappia vedere, con uno sguardo che sappia accoglierlo. Occorre poi ancora, un atteggiamento aperto ed esploratore che è l’altra precondizione per la costruzione di un dialogo funzionale per una cura autentica, cioè, centrata sui reali bisogni di quel paziente. Un atteggiamento che sappia “situare” le domande giuste per quella situazione, domande aperte che aprano un dialogo ermeneutico basato sulle rispettive interpretazioni, un dialogo a spirale che si costruisce nella relazione.

  1. Qual è stata la motivazione che l’ha spinta inizialmente ad approfondire e a diventare un sostenitore così attivo della medicina narrativa e delle medical humanities?

La mia formazione sia accademica che no, la mia sensibilità culturale, i miei interessi, da sempre hanno orientato ad attraversare le discipline che sapessero intrecciare i saperi “scientifici “con quelli umanistici. Poi, come spesso accade, incontri, anche casuali, soprattutto quello con Stefania Polvani, mi hanno condotto a conoscere la medicina narrativa, prima superficialmente e poi via via sempre in modo più approfondito. Da una fase di studio da autodidatta sono poi passato ad una formazione più strutturata e poi a costruire nella mia ASL percorsi laboratoriali molto diffusi che hanno coinvolto tantissimi professionisti. I miei personali interessi per la letteratura e per l’arte in generale, sono stati sicuramente di aiuto in questo percorso che mi ha condotto a cercare vie per una cura in cui competenze tecniche e abilità comunicative e relazionali si integrassero sempre di più.

  1. Nel suo ruolo di sociologo e direttore del Servizio Formazione, Comunicazione e Relazioni Esterne di ASLUMBRIA2, ha osservato un evolversi del rapporto tra medicina narrativa e comunicazione in sanità?

La mia esperienza di dirigente nella ASLUMBRIA2 è stata particolarmente fortunata perché ho trovato nella Direzione Aziendale una cultura della comunicazione molto attenta, sia nei suoi aspetti istituzionali, che nella comunicazione interna e soprattutto nei rapporti con i cittadini e con i pazienti. Questo ha portato a campagne comunicative multimediali in cui l’approccio della medicina narrativa veniva promosso, fatto conoscere ed incentivato, Naturalmente tutto questo non ha prodotto una completa trasformazione delle “posture” di tutti i professionisti, né un totale cambiamento nell’approccio dei cittadini ai servizi, significativi passi in avanti sono stati comunque compiuti. Di particolare rilievo, secondo me, è stato un cambio di passo nelle relazioni e nei rapporti con le associazioni dei malati, dove da un approccio rivendicativo si è passati a modalità cooperative e la medicina narrativa ha giocato un ruolo significativo in questo processo.

  1. C’è stato un episodio particolare nella sua carriera che le ha fatto comprendere profondamente il valore della medicina narrativa?

Da Direttore dell’URP non c’è stato giorno in cui non ho incontrato cittadini o ricevuto segnalazioni su episodi di cattiva comunicazione tra operatori e pazienti o loro familiari, questa è stata una costante della mia esperienza, quindi più che un episodio singolo, è stata la mia esperienza di dirigente di quel settore a farmi comprendere l’urgenza di promuovere nuovi comportamenti basati sulla comunicazione e sulla metodologia della medicina narrativa e devo dire che qualche risultato c’è stato nella mia ASL. Da qui ho avvertito l’esigenza di costruire percorsi formativi strutturati e sistematici il più diffusi possibile ed in questo il ruolo di Simen è stato fondamentale.

  1. Può raccontarci un episodio significativo in cui l’adozione di una “postura narrativa” ha trasformato la relazione terapeutica e l’approccio al paziente?

Un episodio significativo è quello che mi ha raccontato un medico neurologo che aveva fatto una formazione con me. Questo professionista si è trovato ad affrontare una situazione di un paziente quarantenne a cui non si riusciva a fare una diagnosi nonostante tutta la ricerca strumentale attivata. Solo con una particolare attenzione ad aspetti apparentemente marginali e ritenuti non significativi e con una costruzione di un dialogo aperto e non centrato solo sui sintomi, con un ascolto attento ed attivo, con una disponibilità empatica, con tanta curiosità esploratrice il nostro collega è riuscito a far emergere alcuni aspetti risalenti all’adolescenza e a fare una diagnosi di malattia rara che nessuna indagine strumentale avrebbe mai evidenziato senza la “postura narrativa” adottata.

  1. Se dovesse descrivere la “postura narrativa ed esploratrice” di cui scrive con una metafora o  un’immagine, quale sarebbe e perché?

La metafora che mi viene in mente è quella di un percorso in un bosco a piedi, zaino in spalla attraverso un sentiero appena abbozzato e in qualche punto non più segnato con una meta raggiungibile, ma non perfettamente definita.

Questa metafora rappresenta per me il processo della medicina narrativa, definito, tracciato, ma sempre da scoprire, mai predefinito, mai tracciato una volta per tutte, sempre da scoprire ogni volta, con un bagaglio di conoscenze (lo zaino) e con una postura che sono gli strumenti per attraversare il bosco, cioè la relazione di cura.

  1. Può raccontarci un aneddoto divertente o curioso legato alle dinamiche dei laboratori di Medicina Narrativa che ha condotto?

Un episodio che io e Stefania Polvani citiamo spesso è quello che è occorso durante un laboratorio promosso dalla Regione UMBRIA e rivolto ai professionisti dell’area riabilitazione.

Il laboratorio era strutturato su due giornate, la prima parte teorica, la seconda di tipo laboratoriale. Il clima d’aula era positivo, molto interattivo e partecipativo, io già conoscevo quasi tutti i partecipanti e anche tra loro si conoscevano. Erano circa 20, c’erano quindi tutte le condizioni per fare una buona esperienza formativa e vista la qualità de gruppo, io e Stefania abbiamo proposto attività impegnative e coinvolgenti anche da un punto di vista emotivo con una ottima risposta. Durante una attività di scrittura, nella fase di condivisione si sente la voce di un partecipante che dice “ ma chi me lo ha fatto fare di venire qui, mi mancano due anni per la pensione, vado avanti tranquillo, sicuro di quello che faccio e adesso co ”sto corso” mi si sconbussola tutto, stavo tanto bene….. adesso mi cambia tutto!!!!”

Il tutto detto con sincero accoramento, anche se ironico, questo ci è sembrato una sorta di timbro di qualità della nostra proposta formativa che per essere efficace deve far uscire dalla comfort zone e spiazzare un po’.

Un ringraziamento a Paolo Trenta per questa intervista che ci rende già curiosi delle prossime iniziative programmate in Umbria e delle restituzioni incentivanti che ci potrà raccontare.

Un saluto a tutti.

Paolo Trenta – Mi presento

Sociologo di formazione, da sempre interessato ai temi della comunicazione, della intersoggettività, della cura intesa nel senso più esteso del termine. Appassionato di narrazioni in tutte le sue forme, letteratura, autobiografie, misery stories e narrazioni nelle pratiche di cura.
Ho privilegiato un approccio sistemico-costruttivista e ritengo la fenomenologia un metodo valido per “vedere l’altro”, cioè nello specifico della cura, per vedere la singola persona malata e non solo la sua malattia.
Ho diretto il Servizio Comunicazione e Formazione della ASL2UMBRIA, mi sono avvicinato alla medicina narrativa da più di 15 anni, sono stato socio fondatore di Simen, mi sono impegnato nella formazione di professionisti della cura per promuovere e diffondere sempre più la medicina narrativa come pratica di cura.