In primo piano: esperienze ed opinioni. Questa sezione apre un dialogo con professionisti impegnati nel sistema delle cure, con un’attenzione speciale alla medicina narrativa. Esploreremo anche l’etica della cura, le medical humanities e la comunicazione, per offrire una visione articolata e completa della sanità.
A cura di Michela Fedrizzi
Francesca Brencio
In questa intervista abbiamo il piacere di dialogare con la Dott.ssa Francesca Brencio, studiosa di filosofia e salute mentale, attualmente docente presso l’Università di Birmingham. Il suo percorso, che attraversa la fenomenologia, la filosofia della psichiatria e la medicina narrativa, offre uno sguardo originale e profondo sulla soggettività della sofferenza psichica e sulla possibilità di un ascolto autentico in ambito clinico. Con il suo lavoro teorico e applicato, la Dott.ssa Brencio indaga come la fenomenologia e la medicina narrativa possano dialogare, arricchendosi a vicenda in un’etica della cura che riconosca il vissuto del paziente come nodo centrale del processo terapeutico. L’intervista esplora il suo approccio, le esperienze più significative e anche qualche nota più leggera per conoscere la persona oltre la studiosa. È stato molto bello incontrare una persona così appassionata ed entusiasta del proprio lavoro, in continua ricerca e generosa di condividere.
- In che modo la sua formazione filosofica e il suo impegno nella psicopatologia fenomenologica si sono intrecciati con la medicina narrativa? Ritiene che esistano affinità epistemologiche profonde tra questi due approcci?
Risposta: La mia formazione filosofica è nel campo della fenomenologia ermeneutica, un settore che permette di farsi ponte tra gli ambiti che menziona. Le affinità epistemologiche tra formazione filosofica, psicopatologia fenomenologica e medicina narrativa sono molteplici e strutturali. Anzitutto, tutti e tre gli approcci condividono una concezione non riduzionistica dell’esperienza umana. La formazione filosofica insegna a problematizzare i presupposti della conoscenza e a riconoscere la complessità dell’esperienza soggettiva. Analogamente, la psicopatologia fenomenologica, seguendo la tradizione di Jaspers, Binswanger e Minkowski, considera l’esperienza patologica non come mero epifenomeno neurobiologico, ma come alterazione dell’essere-nel-mondo del paziente. La medicina narrativa, similmente, si interroga sul valore epistemico delle narrazioni del paziente come via d’accesso privilegiata alla sua esperienza di malattia. Un secondo punto di convergenza riguarda l’approccio ermeneutico. Tutte queste discipline valorizzano l’interpretazione come strumento conoscitivo primario, riconoscendo che il significato dell’esperienza patologica non è mai dato immediatamente, ma richiede un processo interpretativo complesso che coinvolge sia il professionista sanitario che il paziente nella tensione dialettica che caratterizza ogni relazione di cura. Infine, vi è una comune attenzione all’intersoggettività come fondamento della conoscenza clinica. La comprensione dell’Altro, sia nella tradizione fenomenologica che in quella ermeneutica e narrativa, non procede per riconduzione attraverso categorie generali, ma attraverso un incontro autentico con la singolarità del paziente. Queste affinità mettono in luce come la formazione medica necessita di essere integrata attraverso questi tre approcci per una pratica clinica epistemologicamente fondata e umanisticamente orientata.
- Quali sfide etiche e comunicative emergono oggi nel rapporto tra clinico e paziente in psichiatria, e quale ruolo può giocare la fenomenologia nel trasformare questo dialogo in un’esperienza realmente co-partecipata?
Risposta: Nel contesto psichiatrico contemporaneo, il rapporto tra clinico e paziente affronta numerose sfide etiche e comunicative che meritano un’attenta considerazione epistemologica e clinica. La prima sfida riguarda l’asimmetria di potere intrinseca alla relazione terapeutica, accentuata in psichiatria dalla possibilità di interventi coercitivi e dal persistente stigma sociale. Basaglia ha scritto ma soprattutto incarnato la lotta a questa asimmetria, la quale rischia di tradursi in una vera e propria ingiustizia epistemica, cioè il trattamento sommario e ingiusto, un sorta di vero e proprio torto, che vivono le persone con esperienze vive in salute mentale, nella loro veste di depositari di conoscenza diretta di fenomeni psicopatologici o più in generale legati alla salute. Inoltre, questa asimmetria di potere rischia di trasformare il dialogo clinico in un monologo diagnostico dove la voce del paziente viene subordinata alle categorie nosografiche. Una seconda problematica concerne la tensione tra l’oggettivazione necessaria alla diagnosi e il rispetto dell’esperienza soggettiva del paziente. L’enfasi sui criteri operazionali dei manuali diagnostici tende a frammentare l’esperienza vissuta in sintomi discreti, perdendo di vista la coerenza strutturale dell’esperienza patologica. Inoltre, l’attuale prevalenza del modello neurobiologico, pur con i suoi indubbi meriti scientifici, rischia di ridurre il paziente a substrato neurochimico, oscurando le dimensioni esistenziali, interpersonali e socioculturali della sofferenza, rischiando di fare della psichiatria una pratica clinica senza psiche, volta per lo più ad indagare le alterazioni del cervello. Eppure, il cervello è solo un organo di mediazione, non la sede della persona e il centro della vita, per usare un’espressione di Thomas Fuchs. Il mondo-della-vita della persona è decisamente qualcosa di più complesso e ampio del funzionamento dei network cerebrali. In questo scenario, la fenomenologia clinica, cioè l’applicazione del metodo fenomenologico alla pratica della psichiatria, offre risorse preziose per trasformare il dialogo clinico in un’esperienza autenticamente co-partecipata. In questa cornice, l’intersoggettività diventa il fondamento non solo della relazione terapeutica ma anche della compressione delle cause soggiacenti ai fenomeni psicopatologici: l’essere umano è un essere in relazione: con se stesso, con gli altri, con l’ambiente che lo circonda, con la cultura e la storia del proprio luogo. Questi elementi contribuiscono a delineare una differente comprensione della mente, cioè incarnata. Il concetto di mente incarnata (embodied), nato nella tradizione dell’enattivismo e poi trasportato nel terreno della fenomenologia, rappresenta una prospettiva teorica rivoluzionaria che supera la dicotomia tradizionale tra mente e corpo: la mente non è più un’entità astratta, ma un processo incarnato, situato e relazionale. Questa cornice teorica ha delle ricadute importanti nel campo della salute mentale, nel quale siamo ancora inclini ad avere una visione marcatamente biologista: pensiamo che la causa di un fenomeno psicopatologico risieda nel cervello, allo stesso modo di ciò che accade per una tonsillite o una frattura. Andiamo allo a cercare le cause nel corpo, per poi trattarla adeguatamente. Quando abbiamo a che vedere con la vita della mente le cose non funzionano seguendo un paradigma di causalità lineare (se A, allora B). Le cause vanno ricercate in uno spazio altro che riguarda la vita intersoggettiva del paziente, in cui la relazione corpo-mente-cervello-ambiente si declina in modo complesso e a differenti livelli di manifestazione per mezzo di un principio di causalità circolare, come Jaspers aveva già indicato e recentemente Thomas Fuchs ripreso.
- Nei suoi studi ha spesso lavorato tra contesti culturali differenti. Come cambiano, secondo lei, le possibilità di applicare un approccio fenomenologico e narrativo alla salute mentale in base al contesto socioculturale?
Risposta: Il contesto culturale in cui si studia e si lavora incide profondamente sulla comprensione dei contenuti conoscitivi di quello che andremo poi ad esercitare, sia come insegnanti sia come clinici. Nella mia storia personale, ad esempio, il modo con cui ho studiato la fenomenologia tedesca ha dovuto adattarsi alle esigenze “applicative” di questa conoscenza al tessuto socio-culturale anglosassone, dove la tradizione fenomenologica non è molto di casa. Un altro elemento dirimente è quello della struttura dei sistemi sanitari in cui un professionista lavora, che impatta sia le scelte volte alla formazione che alla pratica clinica.
- C’è stato un momento nel suo percorso accademico in cui ha sentito di dover “scegliere” tra filosofia e pratica clinica? Come ha conciliato queste due anime?
Risposta: La ringrazio per questa domanda che mi permette di puntualizzare un elemento importante: non sono una clinica, ma una filosofa che insegna e lavora nel campo della salute mentale. Qualcuno potrebbe pensare che i filosofi per formazione non abbiano le competenze per insegnare argomenti inerenti al tema di cui sopra: se si passa tutta la vita a studiare Kant, ad esempio, come è possibile insegnare metodi di ricerca qualitativa in salute mentale? Si tratta di scelte, umane prima ancora che professionali. Il 2015 per me è stato un anno di svolta: ho iniziato a studiare autonomamente la psicopatologia e a frequentare corsi di formazione in questo settore. Lo studio di Heidegger e Jaspers, già negli anni del post-dottorato in Germania, aveva iniziato a far nascere in me la curiosità e il desiderio di capire in che modo filosofia e medicina potessero di nuovo tornare a dialogare in vista di un cambio di paradigma: non più quello centrato sulla diagnosi, ma sulla persona e sulle pratiche di cura che mettessero al centro la storia delle persone, che non è solo la storia della loro diagnosi o malattia, se pur condizionanti. E qui vengo al cuore della sua domanda: non si tratta di scegliere, ma di integrare – anche a partire dal linguaggio che usiamo per dialogare con i professionisti sanitari. Ricordo che nei miei primi seminari di formazione con gli psichiatri questo era il primo scoglio: loro non capivano me, perché parlavo un linguaggio tecnico, tipico della filosofia, e io non capivo loro, perché usavano solo diagnosi e lunghe liste di sintomi. C’è voluto tanto tempo e tanto studio per “tradurre” la mia conoscenza in uno strumento utile a chi sta tutti i giorni con i pazienti, e tanto tempo e studio per “decifrare” quello che i professionisti sanitari consegnavano a me, come oggetto di dialogo. Con gli anni poi sono arrivate le possibilità di far parte di gruppi di supervisione con i pazienti, di lavorare in team e avere accesso ai reparti. A loro, ai pazienti ed ex-pazienti, psichiatrici e non, devo immensamente. Non lo dico per edulcorare questo dialogo, ma con profonda umiltà – umana prima ancora che epistemologica: alla fine, alcuni di noi la malattia – qualsiasi malattia – la conosciamo solo dalle narrazioni, dallo studio, dai libri. I pazienti, invece, la portano sulla pelle tutti i giorni. Spesso non siamo equipaggiati per saper ascoltare, vedere e persino rimanere in silenzio. Nutrire costantemente il dubbio su quello che conosciamo per mettere in discussione le nostre conoscenze, esercitare l’autoriflessivita’ e l’epochè fenomenologica, coltivare l’empatia – che non è affatto sinonimo di compassione o affetto – e saper stare nella relazione di cura in tensione dialettica sono esperienze e conoscenze che non sempre apprendiamo dai libri. Ci serve il volto dell’altro, come diceva Levinas, per farne esperienza e trarne insegnamento.
5.. Il suo lavoro con interviste fenomenologicamente informate implica un ascolto profondo delle storie di sofferenza. C’è un incontro che l’ha segnata in modo particolare e che ha cambiato il suo modo di fare ricerca?
Risposta: Nel contesto delle interviste fenomenologiche che ho svolto e che svolgo ci sono tante persone che hanno contribuito ad arricchire e mettere in questione la mia formazione scientifica, e questo voglio ribadirlo. Un incontro che mi ha segnato è stato quello con un paziente psichiatrico con diagnosi di schizofrenia, qualche anno fa. Dovevo realizzare delle interviste fenomenologiche volte ad esplorare la qualità delle differenti percezioni, allucinazioni incluse. Una volta risposte tutte le domande che erano nel protocollo e aver riflettuto insieme su alcune questioni legate alla registrazione video del materiale, mi disse di essersi sentito “visto e riconosciuto” come persona e non come l’ennesimo caso clinico da cui estrarre dati, per la prima volta in 35 anni di ingressi e uscite nei servizi. Vedere l’altro e saperlo riconoscere, proprio nonostante la peculiarità spesso dolorosa, invalidante, inesprimibile quasi, della sua esperienza, rimane un insegnamento dirimente. Saper vedere e saper riconoscere: ci serve una vita per saperlo fare, e credo di essere ancora davvero all’inizio…
- La partecipazione a progetti internazionali come il PhenoLab o il manuale sulla salute mentale personalizzata ha sicuramente richiesto collaborazione e dialogo interdisciplinare. Può raccontarci un episodio emblematico di questo lavoro condiviso?
Risposta: I progetti a cui fa riferimento mi sono particolarmente cari. Il PhenoLab, il laboratorio di salute mentale che ho fondato e dirigo dal 2019, è stato lo scorso novembre ufficialmente riconosciuto come partner educativo dal Collaborating Centre for Values-based Practice in Health and Social Care del St Catherinès College dell’Università di Oxford (UK). Il volume a cui fa riferimento, invece, è lo Handbook of Phenomenology, Values-based Practice and Shared Decision-Making in Personalised Mental Health Care: Contemporary Approaches and Challenges, di prossima uscita per la Springer-Nature. Entrambi rappresentano esperienze di contaminazione di sapere tra professionisti provenienti da diversi settori disciplinari, ed entrambi si qualificano come esperienze di formazione e ricerca interdisciplinari, in cui i pazienti e gli ex-pazienti sono coinvolti come partners alla pari con gli accademici. Mi è difficile soffermarmi su un singolo episodio data l’ampiezza del lavoro che nutre entrambi i progetti; invece, vorrei usare questi due esempi per sottolineare il ruolo centrale che l’interdisciplinarietà occupa nella formazione di chi si occupa delle professioni sanitarie: l’integrazione delle conoscenze, degli strumenti, dei metodi e prospettive provenienti da differenti discipline permette di affrontare in modo più completo e articolato problemi complessi che non possono essere compresi pienamente da un’unica disciplina. Interdisciplinarità non significa che tutti sanno di tutto, né sanno fare tutto. Al contrario significa, ad esempio, che nel contesto di un’esperienza psicopatologica la persona che la vive lavora insieme ai professionisti sanitari e ricercatori per comprendere il senso di ciò che sta vivendo e per definire delle pratiche di cura olistiche.
- Se potesse invitare Edmund Husserl a una seduta di gruppo in un reparto di salute mentale, cosa gli chiederebbe di osservare o su cosa lo farebbe riflettere?
Risposta: Forse lo inviterei prestare ancora più attenzione all’alterazione delle esperienze corporee nelle esperienze delle persone con diagnosi inerenti alla salute mentale e a riflettere su come queste diano forma alla vita affettiva e configurino i processi cognitivi.
- 8. C’è una citazione filosofica che l’accompagna anche nei momenti più caotici della vita accademica o clinica?
Risposta: Ce ne sono molte, a dire la verità, ed alcune sono decisamente non filosofiche. Tuttavia, se chiudo gli occhi, penso a Nietzsche ed al suo aforisma “Chi ha un perché nella vita, sa sopportarne tutti i come”.
Ringrazio la dott.ssa Brencio per averci reso partecipe delle sue significative esperienze. Quanto emerso conferma il valore aggiunto nella cura e nella relazione della interdisciplinarità dei saperi. L’importanza di includere insieme la fenomenologia, la neurobiologia, la narrazione per trasformare il dialogo clinico in un’esperienza autenticamente co-partecipata e attenta. Ci lasciamo con parole importanti che risuonano e rinnovano anche il nostro impegno di facilitatori di medicina narrativa, a presto.
Bio di Francesca Brencio
Dr. Francesca Brencio insegna Salute Mentale all’Institute For Mental Health e alla School of Psychology dell’Università di Birmingham (UK) con una posizione di insegnamento a tempo pieno. Nel 2019 ha fondato PhenoLab – A Theoretical Laboratory in Phenomenology and Mental Health, di cui e’ direttore e responsabile scientifico, ufficialmente riconosciuto come partner educativo presso il Collaborating Centre for Values-based Practice in Health and Social Care del St Catherine’s College dell’Università di Oxford (UK). E’ membro del Comitato Esecutivo de The Royal College of Psychiatrists – Special Interest Group in Philosophy.
Francesca ha studiato Filosofia (Università di Perugia), Teologia (Istituto Teologico di Assisi affiliato alla Pontificia Universitas Lateranensis) e ha conseguito il dottorato in Filosofia e Scienze Umane (Università di Perugia). Ha svolto attività di ricerca e insegnamento universitario in Australia, Germania, USA e Spagna.
Tra i riconoscimenti principali della sua attivita’ accademica:
- Professore Associato (ASN) in Filosofia Teoretica e Storia della Filosofia
- The Seal of Excellence conferito dalla Commissione Europea nell’ambito del Programma UE per la Ricerca e l’Innovazione 2014-2020
- Interdisciplinary Research (IDR) Network+ Grant della University of Birmingham (UK): Co-fondatrice e co-direttrice de The Birmingham Network of Phenomenology and Mental Health (2025), insieme al Professor Matthew Broome, Direttore dell’Institute for Mental Health dell’Università di Birmingham (UK).
Le sue aree di ricerca sono: fenomenologia, ermeneutica, psicopatologia fenomenologica, filosofia della psichiatria, ricerca qualitativa e studi heideggeriani.
Ha scritto e curato i seguenti libri: F. Brencio (2024), (ed.) Phenomenology, Neuroscience and Clinical Practice. Transdisciplinary Experiences, Springer Nature, Cham; F. Brencio, R. De Biase (2025) (eds.), Metaphors in action. Humanities, medicine and the digital world, Springer-Nature, Cham; F. Brencio, F. Greco (2025) (eds.), Heidegger and Neuroscience. Ontology, Medicine and Psychoanalysis in Dialogue, Routledge, New York. È tra gli autori de The APA Handbook of Humanistic and Existential Psychology (American Psychological Association, 2025), Storia della Fenomenologia Clinica (UTET, Torino 2020), The Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology (Oxford University Press, Oxford 2019).
Lavora anche come Consulente Filosofico Certificato APPA.
Esperta di attraversamenti disciplinari, vive tra Birmingham (UK) e Foligno nella sua amata Umbria.
Per una lista dettagliata sulle sue pubblicazioni, si rimanda a Francesca Brencio | University of Birmingham – Academia.edu