Le STORIE è una sezione dedicata alle storie e alle esperienze di malattia e di cura, per dare voce alla dimensione soggettiva del paziente e di coloro che ne hanno cura. Questo spazio accoglie i vissuti personali legati alla malattia, offrendo ai lettori una comprensione più profonda delle esperienze uniche, della fragilità e della vulnerabilità che accomunano chi ha cura e chi è curato.

Dietro una tubercolosi

di Zahra Afshar ,15 ottobre 2025

È nato in Somalia nel dicembre 1994 ed è in Italia dal 2020. È uno di quei pazienti che non vedo spesso, ma quando si presenta so già che c’è qualcosa di importante. L’ho conosciuto nel gennaio 2023, dopo che aveva scelto me su consiglio di una vecchia conoscente che lavora in una ONG a sostegno dei rifugiati politici. Si era rivolto al mio studio dopo un ricovero in chirurgia per una peritonite diffusa con perforazione. Era un ragazzo alto, eccessivamente magro, dal volto pallido e sofferente. La comunicazione non fu semplice a causa della barriera linguistica. La prima visita si limitò alla lettura dei referti, all’esame obiettivo e alla prescrizione di alcuni esami ematici e farmaci. L’ho rivisto nel maggio di quest’anno e, a essere sincera, non avevo memoria di lui. Si era presentato senza appuntamento per dispnea e dolore all’emitorace sinistro. Due giorni prima era già stato in Pronto Soccorso per lo stesso motivo: aveva effettuato visita generale e radiografia del torace, venendo dimesso con la diagnosi di toracalgia aspecifica. Durante la visita in studio appariva molto sofferente e avevo il sospetto di un pneumotorace spontaneo, dato che la radiografia precedente aveva escluso la polmonite. Chiamai il servizio di emergenza territoriale e lo inviai nuovamente in Pronto Soccorso per accertamenti più approfonditi. Anche in quell’occasione, dopo diverse ore, fu dimesso con la stessa diagnosi e la prescrizione di paracetamolo. Il giorno successivo lo rividi e gli consigliai di attenersi alle indicazioni dei colleghi, chiedendogli di aggiornarmi sull’andamento del dolore. Poi non lo vidi più. Devo ammettere che, con la mole di lavoro quotidiano, non ebbi modo di contattarlo fino al 28 luglio, esattamente due mesi e mezzo dopo. In quei giorni ricevetti una sua chiamata per febbre, tosse e astenia. Lo visitai nello stesso giorno: l’obiettività polmonare in corso di febbre indicava una bronchite acuta. Prescrissi terapia e gli chiesi d tenermi i informata. Dopo due settimane mi richiama: la febbre persisteva, continuava a tossire e si sentiva sempre più debole. Lo rividi il 13 agosto. Dopo la visita ho suggeritoTachipirina, una radiografia del torace e un Quantiferon TB con urgenza. Eravamo a ridosso del Ferragosto e pensavo che, nonostante le difficoltà, avremmo potuto arrivare presto a una diagnosi. Tuttavia, nonostante le mie spiegazioni, riuscì a fare solo la radiografia, che eseguì il 18 agosto. Lo vidi quella mattina stessa: l’esito parlava chiaro, tubercolosi primitiva. Mi misi subito in contatto con il reparto di malattie infettive per una valutazione urgente. Dopo oltre un’ora di attesa, riuscii a parlare con un collega che, con gentilezza, mi disse: “Non ho posti letto, non posso ricoverarlo”. Mi consigliò di prescrivere un Mantoux e di attendere, nella speranza che si liberasse un posto. Cercai in ogni modo di spiegare che il ragazzo non si reggeva in piedi, che viveva in comunità e che era necessario un ricovero, almeno per avviare la terapia. Ma la sua risposta rimase ferma: posti non ce n’erano. Non potevo dargli torto: la realtà è che il sistema sanitario, così com’è, non riesce a rispondere ai bisogni reali del territorio. Eravamo entrambi di fronte a una situazione difficile. Ho fatto la ricetta per il Mantoux con urgenza, chiedendo al paziente di avvisarmi non appena avesse avuto la data. Il 19 agosto mi chiamò dicendo che l’appuntamento “urgente” era fissato per il 26 agosto. Al telefono mi raccontò di sentirsi ancora più debole. A quel punto, nonostante le parole del collega, decisi di inviarlo al Pronto Soccorso. Scrissi una lettera dettagliata: resoconto della prima visita, terapie prescritte, persistenza della febbre con tosse produttiva e astenia, copia della richiesta per radiografia e Quantiferon TB, nota del colloquio con il collega, richiesta urgente di Mantoux (datata 26 agosto), peggioramento delle condizioni cliniche. Gli ho consegnato tutto e lo inviai al Pronto Soccorso. La sera stessa lo chiamai per sapere com’era andata. Mi disse che non se la sentiva di prendere l’autobus e che sarebbe andato il giorno seguente. La mattina successiva avevo deciso di raggiungerlo a casa e inviarlo con l’ambulanza, ma quando lo chiamai mi disse che era già in ospedale. Qualche ora dopo mi comunicò che era stato ricoverato. Nel pomeriggio ricevetti la telefonata del collega infettivologo: mi confermò di averlo ricoverato e aggiunse di aver letto con attenzione tutto il materiale che avevo preparato.

Anche se lavoro nel cuore dell’Europa, lontano da paesi devastati da guerre e carestie, mi capita spesso di imbattermi in storie che parlano di sofferenza e mancanza, di bisogni primari che restano insoddisfatti. Sono storie di ragazzi stranieri arrivati in Italia per i motivi più diversi: c’è chi è fuggito da conflitti che hanno distrutto la propria terra, chi è giunto con un visto di studio, e chi, più semplicemente, è partito per cercare lavoro e costruirsi un futuro migliore. Tutti accomunati da un’unica speranza: cambiare il proprio destino, proprio come feci anch’io quando arrivai in questa terra. Nel corso di venticinque anni di lavoro intenso, ne ho incontrati tanti. Ragazze e ragazzi con gli occhi pieni di sogni, ma anche di timore e malinconia. Gli occhi dei giovani dovrebbero riflettere solo entusiasmo e curiosità, eppure nei loro spesso scorgo un velo di tristezza. Forse è il peso del viaggio che hanno affrontato per arrivare fin qui, forse le difficoltà quotidiane che incontrano nel tentativo di costruirsi una nuova vita. O forse è la lontananza da casa, da quei luoghi dove ci si sente accolti così come si è, senza bisogno di spiegazioni. Cerco di comprenderli, anche se non è sempre facile. Spesso arrivano nel mio studio — la prima porta d’accesso al Servizio Sanitario Nazionale — solo dopo aver aspettato troppo a lungo. E quando finalmente mi contattano, le loro condizioni richiedono accertamenti urgenti. Nelle mie giornate fitte di lavoro, a volte faccio davvero fatica a trovare il tempo necessario per dedicarmi a questo gruppo così particolare di persone. Hanno bisogno di raccontarsi, di essere ascoltati con attenzione, e nessuna visita riesce mai ad avere la durata “giusta” prevista per un ambulatorio di medicina generale. Per questo cerco di riservare loro momenti speciali, prima o dopo l’orario di lavoro. In quei frammenti di tempo posso visitarli con calma, ascoltarli davvero, prendermi cura di loro senza fretta. In tante occasioni, mentre li guardo negli occhi e ascolto le loro storie, mi ritrovo a pensare a me stessa, ai miei anni da studentessa senza tessera sanitaria, quando per tanto tempo mi curavo solo con rimedi casalinghi. Forse è anche per questo che sento il bisogno profondo di esserci, di offrire a ciascuno di loro quell’attenzione che un tempo anch’io avrei voluto ricevere.

La storia di questo ragazzo mi ha colpito in modo particolare. Forse perché, come quella di Maryam — la giovane ragazza iraniana che lo scorso marzo, durante un ricovero per polmonite, ha scoperto di avere anche un embolia polmonare — racconta di fragilità, di forza e di resistenza. Come il mio incontro con Said – un ventiseienne iraniano arrivato in Italia con un visto di studio – e la sua malattia. Said non ha i mezzi per dedicarsi completamente allo studio, non riceve soldi dai genitori, deve lavorare per mantenersi, ma non può farlo regolarmente a causa del suo visto di studio. Non ha neppure una tessera sanitaria, perché il costo annuale di 700 euro e lui non lo può pagare.

E’ arrivato nel mio studio perché da alcuni mesi non riusciva più a chiudere le palpebre, aveva tachicardia ed era dimagrito. Per un medico la diagnosi era semplice, ma per lui no: non sapeva nemmeno da dove cominciare. L’ho inviato al pronto soccorso per gli accertamenti, non avevo altra scelta. Fortunatamente, i colleghi dell’endocrinologia si sono presi cura di lui, anche senza tessera sanitaria. Ora riusciamo a gestire insieme la sua malattia, e cominciamo a controllare i sintomi con tapazole, beta bloccanti e più di un mese di cortisone.

La sua storia mi ha toccato profondamente. Forse per la sua solitudine, così discreta e timida. Forse perché la vita di un giovane non dovrebbe mai confondersi con le malattie o con difficoltà più grandi delle sue forze. Un cuore alla sua età dovrebbe battere sereno, senza bisogno di farmaci finalizzati a ridurre il numero di battiti e i suoi occhi dovrebbero potersi chiudere la notte per poi aprirsi, al mattino, riposati e pronti a guardare l’alba di un giorno migliore.

Montemarciano 05.10.2025

Zahra Mitra Afshar

 Zahra Afshar è nata a Teheran, in Iran, nel 1964. Vive in Italia dal 1984, dove ha studiato Medicina e Chirurgia presso l’Università La Sapienza di Roma. Oggi esercita come medico di medicina generale nel comune di Ancona.  Ha conseguito il Master di Medicina Narrativa, Comunicazione ed Etica della Cura presso la Facoltà di Medicina dell’Università Politecnica delle Marche. Appassionata di scrittura e profondamente attenta alle storie dei suoi pazienti, unisce nella vita e nella narrativa il suo sguardo medico e umano.